Eastern Pictures

La questione della spiritualità presuppone un cammino di trasformazione del sé che si può percorrere lungo due direzioni: da un lato quella del vissuto, della dimensione interiore, dall’altro quella del corpo, dell’esistenza come realtà fisica e biologica. Queste due vie non sono opposte l’una rispetto all’altra, ma tendono a intrecciarsi, a sovrapporsi, come si può ben intendere dal fatto che molti processi di meditazione implicano anche discipline legate alla propria fisicità, alle tecniche che il mondo antico definiva una “dietetica” dell’anima e del corpo. L’approdo, però, non è lo stesso da entrambi i lati. Procedendo lungo la linea dell’anima, il cammino di trasformazione tende a pensarsi nella prospettiva della storia e a porsi obiettivi di riscatto, di salvezza. Quando si concentra sulla corporeità, invece, la spiritualità prende la forma di una riflessione su ciò che storico non è, sulla polarità tra vita e morte, per esempio, e sul ripetersi sempre uguale degli stessi conflitti, sfociando spesso in una visione tragica dell’esistenza.

Essendo da sempre espressione dei valori di una comunità, la musica corale si è rivolta agli aspetti più universali della ricerca di spiritualità, non importa se di tipo religioso o civile. Più che in altre forme di musica, la coralità ha dato voce a una riflessione sul genere umano che nel Novecento, in particolare, ha coinciso anche con un ampliamento degli orizzonti culturali tendente a includere tanto la storia quanto lo spazio geografico, guardando cioè sia al mondo antico sia al contributo di tradizioni diverse da quella occidentale.

La questione della spiritualità presuppone un cammino di trasformazione del sé che si può percorrere lungo due direzioni: da un lato quella del vissuto, della dimensione interiore, dall’altro quella del corpo, dell’esistenza come realtà fisica e biologica. Queste due vie non sono opposte l’una rispetto all’altra, ma tendono a intrecciarsi, a sovrapporsi, come si può ben intendere dal fatto che molti processi di meditazione implicano anche discipline legate alla propria fisicità, alle tecniche che il mondo antico definiva una “dietetica” dell’anima e del corpo. L’approdo, però, non è lo stesso da entrambi i lati. Procedendo lungo la linea dell’anima, il cammino di trasformazione tende a pensarsi nella prospettiva della storia e a porsi obiettivi di riscatto, di salvezza. Quando si concentra sulla corporeità, invece, la spiritualità prende la forma di una riflessione su ciò che storico non è, sulla polarità tra vita e morte, per esempio, e sul ripetersi sempre uguale degli stessi conflitti, sfociando spesso in una visione tragica dell’esistenza.

Essendo da sempre espressione dei valori di una comunità, la musica corale si è rivolta agli aspetti più universali della ricerca di spiritualità, non importa se di tipo religioso o civile. Più che in altre forme di musica, la coralità ha dato voce a una riflessione sul genere umano che nel Novecento, in particolare, ha coinciso anche con un ampliamento degli orizzonti culturali tendente a includere tanto la storia quanto lo spazio geografico, guardando cioè sia al mondo antico sia al contributo di tradizioni diverse da quella occidentale.

Il filo che lega le composizioni corali di Gustav Holst, di Leonard Bernstein e di Giya Kancheli sta proprio in una domanda di spiritualità che si collega a un’esigenza etica e politica. Le loro personalità e le loro esperienze sono diverse. Holst è stato attivo fin da giovane come militante socialista e ha incontrato la spiritualità indiana nella sua ricerca di un principio generale che affermasse i valori della pace come corollario dell’uguaglianza fra gli esseri umani. Leonard Bernstein fu impegnato politicamente soprattutto negli anni Sessanta, e se ebbe un autentico trasporto per la Presidenza Kennedy, al quale poco dopo il suo assassinio dedicò la Sinfonia Kaddish (1963), coltivò una ferma opposizione alla guerra in Vietnam e assunse toni di una radicalità etica che all’inizio degli Settanta lo spinsero ad abbandonare la politica, ma non i suoi ideali di pace e di fratellanza. Giya Kancheli, dal canto suo, ha seguito una linea di riflessione spirituale capace di saldare in un unico punto la tradizione religiosa della sua terra e la più attuale sensibilità ecologica.

Scomparso a 84 anni nel 2019, il georgiano Giya Kancheli è il più rappresentativo degli autori costretti dal sistema sovietico a una marginalità vicina all’oblio, non fosse stato per la sua attività come compositore di colonne sonore per il cinema. Dopo la fine di quel regime ha riconquistato il centro della scena internazionale rivelandosi come una delle figure più autentiche e originali del panorama contemporaneo. La sua musica è rarefatta, spesso basata su lunghi suoni tenuti, su effetti di vuoto e di lontananza che le conferiscono un’aura speciale. In Amao omi, tipicamente, il testo è ridotto a singole parole che acquistano insieme valore fonetico ed evocativo: si nominano il cielo, il sole, lo splendore, si intona un Alleluia, si formulano domande tanto vaghe quanto fondamentali, ma tutto fluttua in un’atmosfera sospesa alla cui evidenza contribuisce il quartetto di sassofoni, quasi un altro coro che in antifona raccoglie il suono delle voci.

Amao omi significa in georgiano “guerra insensata” e l’obiettivo di Kancheli è la conciliazione, la pace, la volontà di ritrovare un senso superando il disorientamento. Il canto dei monasteri ortodossi è il retroterra da cui attinge, ma la sua musica mescola contemplazione e forza attingendo agli estremi di sonorità che possono sfiorare il silenzio per ricostruire un’ecologia dell’ascolto e un habitat in cui gli esseri umani possano sentirsi parte di un’unica comunità.

Leonard Bernstein scrisse i Chichester Psalms nei primi mesi del 1965. Aveva ricevuto una committenza dal Festival Corale di Chichester, in Gran Bretagna: lo scambio epistolare che ebbe con il priore della cattedrale di quel luogo, Walter Hussey, permette di ricostruire la genesi e il carattere del lavoro. Dopo avere accettato la richiesta con entusiasmo, Bernstein esitò a lungo senza idee, con la matita in mano e il foglio bianco davanti. Poi l’intuizione per una suite di Salmi con musica «schietta, melodica, ritmica, giovanile». Poteva però pensare ai Salmi solo nell’originale ebraico e chiedeva perciò al suo interlocutore su questo poneva problemi di natura ecclesiastica: «ci sono obiezioni, in linea di principio, al fatto che si canti in ebraico nella vostra cattedrale»?

Hussey non ebbe obiezioni e poco più di due mesi dopo, l’11 maggio, Bernstein scrisse per annunciare che i Salmi erano finiti e «abbastanza popolari nel tono (come lei ha suggerito, c’è anche un accenno a West Side Story)», con «una dolcezza vecchio stile anche nei momenti più violenti». Bernstein riutilizzò anche brani di un musical ispirato a un testo di Thornton Wilder, The Skin of our Teeth, che aveva in preparazione nello stesso periodo ma a cui finì per rinunciare in corso d’opera.

Questa la descrizione che ne diede per lettera:

L’opera è in tre movimenti […] ognuno dei quali contiene un Salmo completo e una o più versioni di un altro Salmo complementare, per contrasto o per amplificazione. Il primo movimento si apre con il verso 3 del Salmo 108, che evoca la lode, e poi passa al Salmo 100, completo, una danza selvaggia e gioiosa nello spirito di David. Il secondo è il Salmo 23, completo, con una voce bianca solista e un’arpa, ma interrotta brutalmente dalle voci adulte con minacce di guerra e di violenza (Salmo 2, versi 1-4). Questo movimento termina senza conciliazione tra i due elementi, fede e paura, che si intrecciano. Il terzo si apre con un preludio orchestrale basato sul corale di apertura, le cui armonie assertive si trasformano però ora in qualcosa di doloroso. C’è una crisi, ma la tensione si allenta improvvisamente e il coro entra umilmente, pacificamente, intonando il Salmo 131 completo con quella che è quasi una canzone popolare (anche se in 10/4!). […] In questa atmosfera di umiltà c’è una coda corale finale (Salmo 133, verso 1), una preghiera per la pace.

Prima di eseguirli in Gran Bretagna, Bernstein diresse i Chichester Psalms a New York impiegando quattro voci soliste e coro misto. Preparò anche due tipi di orchestrazione: uno più ampio, con archi, fiati e una nutrita sezione di percussioni, l’altro con arpa, organo e ancora percussioni, irrinunciabili per il colore popolare voluto dall’autore.

Nella sua ricerca di un fondamento unitario della spiritualità umana, alla fine dell’Ottocento Gustav Holst si imbatté nei testi della tradizione Hindu. Fra il 1899 e il 1906 scrisse un’opera in tre atti, Sita, ispirata a una storia del Ramayana e nel 1908 un’opera da camera tratta dal Mahabharata. Nello stesso anno avviò il suo lavoro sul testo più antico di quella cultura, composto tra il 1.500 e il 1.000 a.C., la Rig Veda, parole che indicano “lode” e “conoscenza”. Per poter arrivare a un testo chiaro, comprensibile, capace di trasportare l’ascoltatore occidentale nel mondo spirituale aperto da un’altra cultura, Holst decise di iscriversi all’University College di Londra per studiare il sanscrito e provvedere, così, a una propria traduzione. Il lavoro sul Rig Veda, che gli fornì materia per quattro gruppi di Inni corali, durò fino al 1916. Nello stesso periodo compose anche Two Eastern Pictures (1910) e The Cloud Messenger (1913), entrambi su sue traduzioni del poeta Kālidāsa (IV-V sec. d. C.).

Gli Inni corali dalla Rig Veda hanno diverse forme di insieme vocale e strumentale. Il primo gruppo è per coro misto e orchestra. Il secondo e il terzo per coro femminile e arpa. Il quarto per coro maschile e orchestra. Holst si riallacciò alla musica classica dell’India combinando ritmi e armonie orientali con antiche procedure della musica occidentale, in particolare con i “modi” frigio e misolidio. Degli oltre mille testi poetici della Rig Veda ne scelse in tutto 14, concentrando la sua attenzione su quelli più suscettibili di comunicare valori universali. Quelli del terzo gruppo sono legati alla natura e alla creazione. Hymn to the Dawn è un canto sull’inizio del mondo; Hymn to the Waters si riferisce alla forza vitale delle acque, che si rovesciano sulla terra dal cielo; Hymn to Vena narra di un neonato, l’apice della creazione, e tesse le lodi della luce splendente del sole che, attraverso la nebbia che avvolge il nostro intelletto, rivela la filiazione comune del genere umano; Hymn of the Travellers è infine una metafora della vita umana come viaggio nel quale il cammino appare più prezioso della meta.

 

Stefano Catucci