Quando due universi si incontrano non è detto che vada a finire bene. È un po’ quello che succede con i virus (è una metafora, lasciamo stare la virologia vera e propria, di questi tempi l’abbiamo esplorata fin troppo). Può essere una scoperta, una cura addirittura oppure un’arma letale. Nell’incontro fra universi può accadere di tutto, alcuni elementi si perdono e altri si scoprono, c’è rinuncia ma anche riscoperta e, più di ogni cosa, c’è una trasformazione che segue la contaminazione.
Oggi, forse, la parola contaminazione si porta sempre dietro un’accezione sinistra, eppure è grazie a essa che noi tutti, in un certo senso, esistiamo; noi e il mondo che ci circonda. È perfino banale affermare che l’arte sia il terreno più fertile della contaminazione, però allo stesso tempo è sorprendente constatare come tanti di quei confini “abbattuti” nello spazio di un teatro o di un museo siano, fuori di essi, ancora costitutivi della nostra realtà.
Se questa pratica della contaminazione è così estesa, radicata, a suo modo persino “canonizzata” sul palcoscenico ma fatica ad attecchire davvero nelle nostre società, perché proseguire con questa pratica? Siamo di fronte a un dispositivo che ci lava le coscienze o a qualcosa che provoca un cambiamento, un’evoluzione? Forse, seguendo una traccia di Gillo Dorfles, la risposta giusta non è né un sì né un no categorici, ma un cambio di prospettiva. Il critico d’arte, infatti, rifletteva sul fatto che «Un minimo di contaminazione tra parola e immagine, tra simmetrico e asimmetrico, tra minimo e massimo non [possa] realizzarsi che attraverso l’espandersi del segno verbale in un segno grafico che non ne sia l’equivalente, ma il proseguimento». Dovremmo allora guardare alla contaminazione come a qualcosa che innesca dei processi. Le stesse parole, in realtà, sono frutto di contaminazione ed essendo lo strumento attraverso le quali nominiamo il mondo, esso stesso, potremmo dire, è in continua trasformazione anche grazie a noi, grazie al contaminarsi del nostro vocabolario. Così, la parola “contaminazione” contiene al contempo l’atto di contaminare e di contaminarsi – che oggi ci atterrisce per i suoi rimandi epidemiologici – e l’effetto che ne segue, sfumando i suoi stessi contorni e contribuendo al venire meno di quelle celle – o categorie – che annienterebbero il proseguimento delle cose.
Farsi contaminare e contaminare altro sono i segni dell’incontro, dell’apertura, della disponibilità al dialogo e all’accoglienza, principi tanto presenti nella poetica e nelle opere degli artisti che quest’anno inaugurano la sezione che il Festival dei Due Mondi di Spoleto dedica alla danza: Mourad Merzouki, che con dodici danzatori porterà Folia al Teatro Romano il 26 e 27 giugno, e Jonas & Lander, che con Coin Operated coinvolgeranno gli spettatori in un’installazione performativa negli spazi della Chiesa di Sant’Agata dal 2 al 4 luglio.
Nella volontà di costruire un mosaico di linguaggi variegati, Mourad Merzouki ha realizzato un’opera coreografica dove sulla stessa scena convivono le movenze dell’hip-hop e le rotazioni dei dervisci, legazioni sulle scarpe da punta e virtuosismi da breakdance, una miscellanea di espressioni si muove su musiche che vanno dal barocco, alla tarantella, all’elettronica. Un palcoscenico gremito di danzatori e musicisti le cui azioni confluiscono in un universo di scenari nel segno della non solo della convivenza ma anche del compenetrarsi, facendo dello spettatore il testimone della grande ricchezza che nasce dell’incontro fra i corpi.
«Gli incontri inaspettati tra due universi – a cui a priori tutto si oppone – fanno parte del mio approccio artistico» spiega Merzouki, e lo stesso principio riguarda anche il termine che dà il titolo all’opera. Il tema musicale della follia – appunto folìa nell’originale portoghese – appartiene ad un antico genere che deve la sua forma alla commistione di elementi diversi e che prevedeva anche una danza fra pastori e contadini e una parte di canto, prima di affacciarsi nelle corti e modificare ancora le sue fattezze. Strettamente legata al momento della festa e della baldoria, la folìa racconta da sola più di quanto possano fare mille parole la molteplicità espressiva incarnata dai danzatori della compagnia Käfig, dall’ensemble di musica barocca Le Concert de l’Hostel Dieu diretto da Franck-Emmanuel Comte e dalle sonorità elettroniche di Grégoire Durrande. Merzouki, d’altronde, racconta come il suo fare coreografico sia profondamente influenzato dall’idea dell’intersezione, di discipline e di culture.
“Sono animato dall’idea di metter insieme mondi lontani. Per fare questo occorre ascoltare, imparare dall’altro, accettare di uscire dalla propria zona comfort. All’inizio tutto è confuso, ma poi diventa incredibilmente gratificante!”
Coin Operated ©Bruno Simao
Se con Merzouki lo spettatore si trova a essere testimone della capacità dell’arte di abbattere i confini e strutturare la sua potenza sulla forza dell’incontro, Coin Operated disegna invece una dimensione di con-testimonianza che guarda in modo particolare alla partecipazione attiva dello spettatore, rendendolo agente principale dell’origine performativa dell’azione.
Coppia nell’arte e nella vita, Jonas Lopes e Patrick Lander rappresentano in questo caso l’emblema della trasformazione per mezzo di contaminazioni, l’incontro e la commistione come canali principali per creare un immaginario.
“Quando leggiamo una frase come ‘rompere il confine’, questa ci fa pensare che dopo quella rottura saremo finalmente liberi”, spiegano i due artisti. “Ma poiché non crediamo nella libertà, ma piuttosto nelle porzioni di libertà, preferiamo pensare di sovvertire i confini e di espandere il nostro territorio dell’immaginazione, senza mai dimenticare che quando rompiamo un confine ne troviamo subito un altro”.
Ancora una volta musica e danza s’incrociano per dar vita a qualcos’altro, e cioè a un’installazione, che è anche una performance, e che affida allo sguardo – ma ancor di più all’azione – dello spettatore il compito di decidere quando rendere manifesto il mondo surreale e fantasioso creato dai due artisti. Contaminazioni multiple, come possiamo vedere, danno modo di far esperienza di quanto convivenza e accoglienza dell’altro possano creare paesaggi inediti, possibilità inaspettate, e fornire ogni volta esempi molto chiari alla realtà in cui viviamo.
Quando più universi si incontrano non è detto che vada a finire bene, ma è un rischio che se si è pronti a correre può davvero contribuire allo sradicamento di convinzioni e automatismi in cui siamo tutti radicati sui quali, alle volte, poggiano discriminazione e violenza. L’incontro artistico e la contaminazione che ne scaturisce non è solo la rappresentazione del fatto che ciò è possibile, ma a volta – come in questi due lavori – indica anche delle pratiche da perseguire.