Nel mio primo incontro con l’opera di Pina Bausch ho avuto la sensazione di vedere tutta la mia vita, c’era tutto, l’indecisione, la confusione, l’amore, la contraddizione, la paura, il perseverare, il soffrire, il delirante senso di essere umana. E infatti, subito dopo, ho sentito che era anche di tutto il resto delle persone, perché di quelle persone ne rispecchiava la complessità, la linea ancestrale che attraversa tempo e spazio, quella relazione in cui riuscire a scorgerci che travalica la memoria e in cui poter semplicemente essere. Era Café Müller, ma sarebbero state molte altre le occasioni di innamoramento nei confronti di questa sacra figura, la Maestra cui avrei in grande parte dovuto il merito del mio amore per la danza.
“Danziamo, danziamo, altrimenti siamo perduti” è una di quelle frasi che non definirei neanche citazioni, ma piuttosto enunciati di Pina Bausch – un insieme di parole che può suonare in infiniti modi, come un grido di battaglia e un segreto sussurrato, come infinite possono essere le declinazioni del corpo intero – che della coreografa rivelano, fra le altre cose, l’attenzione nel confronti dell’alterità, la complessità come consapevolezza, una sorta di potente fiducia nell’unione e nella rottura di confini come occasione di resistenza (“il pensiero cioè che esiste la possibilità di lottare”, affermava Pier Paolo Pasolini). All’interno di un sistema in cui qualsiasi tipo di consumo – cose, persone, situazioni… – diventa sempre più veloce e meccanico; una società che man mano si anestetizza alle passioni – guardando alle riflessioni del filosofo Byung-Chul Han – allontanandosi sempre più dall’Altro nel definire limiti di distanza; l’opera di Pina Bausch permette di riscoprire la relazione al di là dei margini, che accoglie passione, complessità, fragilità, forza in una visione politica del teatro.
«La tecnica della voce che rompe il silenzio: il suo mondo ci ha parlato di rigore e di libertà, ma anche di memoria, di ironia, di paura e, soprattutto, di amore», sono le parole di Piero Tauro, che il 25 giugno ha inaugurato per il Festival dei Due Mondi di Spoleto Pina Bausch e la sua Rivoluzione: Il teatro della commedia umana, mostra fotografica che, negli spazi del Teatro Nuovo Gian Carlo Menotti, ripercorre le tracce del Wuppertal Tanztheater Pina Bausch.
Nel suo incontro col Wuppertal Tanztheater di Pina Bausch, Piero Tauro rintraccia nell’esperienza, memoria e tempo i termini che ne «raccolgono il senso totale e totalizzante», evidenziando la vastità dell’eco che questa rivoluzione ha compiuto e messo in atto:
Raccontare un fenomeno così determinante nella creazione di una coscienza collettiva, così politico nella sua rappresentazione dell’umano, ha creato nel mio lavoro degli equilibri nuovi, inaspettati. Di esperienza, memoria e tempo. Quando la vita lavorativa, il quotidiano che si evolve, ti porta nella professione di fotografo a nuovi equilibri di immagine, il senso della contaminazione delle arti, la danza, il teatro, l’arte, la musica, il digitale, ti spinge a porti delle domande. A questo punto puoi trovare nuovi valori di senso critico, trasformare il visto in scena in visionario. Ma a volte la potenza creativa è più forte. Il senso del rigore, il vivere nella memoria collettiva la reale dimensione della danza. Questa è stata Pina Bausch davanti al mio obiettivo e al di sopra di ogni mio scatto: potenza creativa del suo ESSERE TEATRO.
Come frammenti degli Stück – così la coreografa usava chiamare le sue opere –, le fotografie di Piero Tauro possono rappresentare anche la traccia di un senso di condivisione, di volontà d’inclusione fra arti e persone, custodendo l’esperienza, la memoria e il tempo del suo incontro con l’opera del Wuppertal Tanztheater. Poetiche che si contaminano dando spazio e speranza a qualcosa di nuovo, a quel “qualcosa – come diceva Pina Bausch – che esiste in noi da sempre”. Ripercorrendo quei momenti, l’autore della mostra riesce a esprimere con chiarezza l’importanza e il senso del loro rapporto:
Il fotografo di scena ha un compito particolare. Dare corpo di immagini allo spettacolo teatrale rimanendo invisibile. Questo crea con l’artista un rapporto quasi “inconscio” ma profondamente vissuto. Nel mio caso, ho incontrato Pina Bausch durante le prove generali dei suoi spettacoli, il suo sguardo preso e concentrato sui movimenti dei performer. Silenzi, appena rotti da un attimo, un appunto. Una correzione. Voce silenziosa. Impercettibile. E in questo equilibrio leggero sentivo di esserci, pur restando io stesso impercettibile. E così la puoi vivere.
Dancing at Dusk © polyphem Filmproduktion
Attraversando questa memoria si riescono a percepire le tracce di un vissuto che va oltre le possibilità dell’essere umano, quelle che forse sono affidate proprio all’arte e alla sua sensibile possibilità di veicolare e travalicare i confini, smuovere e unire. Un’altra proposta della 64esima edizione del Festival dei Due Mondi di Spoleto guarda in questa direzione, trasformando la difficoltà in opportunità. The Rite of Spring, celebre opera del 1975 della coreografa tedesca, avrebbe dovuto intraprendere nel 2020 una tournée internazionale, ma le restrizioni dovute alla pandemia hanno causato l’interruzione poco prima che potesse anche solo cominciare. Per celebrare ancora l’unione prima dell’isolamento forzato e dello scioglimento, a marzo l’ensemble di trentotto danzatori ha rappresentato la coreografia di Pina Bausch sulla spiaggia di Toubab Dialaw, in Senegal, nei pressi dell’École des Sables, rendendo possibile la realizzazione del film Dancing at Dusk – A moment with Pina Bausch’s The Rite of Spring, con la regia di Florian Heinzen-Ziob.
È possibile riscontrare una certa tendenza nella danza contemporanea, come una sorta di rincorsa in cerca di una fenomenologia del dolore, di un dolore perduto, una serie di opere che lavorano sulle passioni che non si è in grado di elaborare ed esprimere (in alcuni casi, di provare). Forse potrebbe essere questa l’eredità in cui ritrovare le tracce di Pina Bausch, una chiave che dona alla ricerca dei sentieri che è ancora necessario battere.