La prima volta che ho sentito Stravinskij non avevo idea di chi fosse. Come molti della mia generazione (classe ’92) è successo durante l’infanzia, seduta per terra davanti a un tubo catodico impegnata nella visione di Fantasia, il film d’animazione Disney del 1940. Lì, come sottofondo musicale alle immagini della nascita dell’universo e del pianeta terra, ho ascoltato senza saperlo gli ostinati e le dissonanze de Le Sacre du printemps, uno dei pezzi di musica più rivoluzionari del XX secolo. Avrei dovuto aspettare di frequentare l’università per capire l’importanza di quel balletto e di Stravinskij stesso per la Storia della musica e mi ci sarebbe voluto un po’ per scardinarlo dall’immaginario infantile che lo ricollegava ai vulcani e ai dinosauri, per riportarlo ai suoi significati “adulti”. Già allora però c’era qualcosa di magico che inconsciamente mi attirava e lasciava a bocca aperta e occhi sgranati, in ammirazione di “quella musica strana”.
Fotogramma da Fantasia Dinsey (1940), Le Sacre du printemps
Quello che scoprii studiando Stravinskij lasciò la me decenne decisamente spiazzata. Quella musica che mi era sembrata così perfetta nella purezza dell’ignoranza infantile nel 1913 era stata accolta con risate, insulti e fischi, in una sala parigina divisa tra conservatori indignati e avanguardisti entusiasti del nuovo anche solo in quanto tale. Quello che sconvolse non furono solo il modo i cui i ballerini erano vestiti (abiti della tradizione russa al posto del tutù) e lo stile di danza, ma il nuovo tipo di composizione che Stravinskij aveva deciso di portare in scena, in particolare quello stranissimo (che sarebbe diventato presto celebre) accordo dissonante ribattuto al centro della partitura che ai profani dava l’effetto di una “manata casuale” sui tasti del pianoforte. Insomma, ciò che nella mia esperienza era stato un trionfo all’epoca era stato un quasi disastro.
A cinquant’anni dalla sua morte oggi è strano pensare a Stravinskij come un inascoltabile sperimentatore o peggio ancora come un avanguardista estremo, chiuso nella famosa (e affollatissima) torre d’avorio a giudicare noi tutti per la nostra stoltezza. La verità è che oltre al clamore che suscitò quella serata della prima e sollevando quel velo di coloritura storica che teniamo sempre a poggiare sugli eventi del passato per renderli più interessanti ai nostri occhi, troviamo un musicista molto intelligente e astuto conoscitore del mercato musicale che, in un modo o nell’altro, è sempre riuscito a far parlare di sé per ragioni diametralmente opposte. Capofila dell’avanguardia storica in prima battuta, diventa in pochi anni il più conservatore di quello stesso movimento, mutando sempre al mutare dei tempi, distanziandosi costantemente da chiunque cercasse di avvicinarsi al suo stile.
Lo troviamo infatti a distanza di tredici anni con questo Oedipus Rex, un’opera che sembra davvero avere pochissimo a che fare con Le Sacre du printemps. Stravinskij è nel suo pieno periodo neoclassico, il che vuol dire che ha completamente abbandonato quello stile di composizione selvaggio che lo ha contraddistinto nei suoi primi lavori. Questa volta è tutto monumentalmente fermo, chiuso, statico, fino ad arrivare alla quasi totale immobilità. Stravinskij ricerca tutto questo volutamente, ha bisogno di parlare esclusivamente attraverso la musica, un po’ come voleva fare Wagner con la “musica totale”, in grado da sola di raccontare ciò che accade in scena. Beninteso: troveremo sempre i suoi famosi ostinati ritmici e le cosiddette “dissociazioni armoniche” (sovrapposizioni di armonie diverse o di diversi gradi della scala), tutto ciò che lo ha resto famoso e innovativo all’inizio, ma non c’è più l’estrema sperimentazione di un tempo. È stato fatto un lungo passo indietro verso la musica romantica e persino a Bach. Se prima la partitura era un misterioso susseguirsi di note, ora troviamo le classiche diciture di “aria”, “duetto”, “coro”. Qualcosa in Stravinskij è profondamente cambiato.
Igor Stravinskij (Getty Images)
In tutta la musica qualcosa è cambiato, in quel periodo in cui, a seguito della guerra, non c’è più fiducia nell’avanguardia come se ne poteva avere prima. La Prima Guerra Mondiale ha dimostrato al mondo intero che tutto può essere distrutto con incredibile facilità e della fiducia nel ruolo dell’arte come apripista nella scoperta della realtà futura non c’è più traccia. Il ritorno alla forma classica è un tentativo di rassicurazione e al tempo stesso un’ammissione di colpa: Stravinskij con la sua arte non si sente più in grado di scoprire, ricercare o anticipare alcunché. È un duro colpo, per lui e per la musica in generale, che da un lato (quello dell’avanguardia) si sta avviando verso un crescendo di complessità compositiva che la porterà, nel corso del tempo, ad essere sempre più una faccenda per addetti ai lavori e dall’altro (quello della lirica) a una progressiva fossilizzazione del repertorio.
Ma torniamo a noi e a questo Oedipus così classico e altisonante. Abbiamo detto che Stravinskij vuole che sia solo la sua musica a parlare, per questo gli serve un soggetto molto conosciuto che non abbia bisogno di spiegazioni, come quello di Edipo. Non solo. Per evitare che si ci concentri sulla parte testuale il compositore sceglie una lingua che non potesse essere immediatamente comprensibile come il latino. Come dichiara lui stesso, si tratta di una: “[…] materia non morta, ma pietrificata, diventata monumentale e immunizzata contro ogni trivializzazione”. È una scelta che deriva da un’illuminazione del tutto casuale, arrivatagli dopo aver trovato per caso su una bancarella genovese un libro su San Francesco. In quel testo aveva letto di come il santo usasse il provenzale per le parti più solenni dei suoi testi, essendo una lingua più simile alla preghiera. Di qui la decisione dell’utilizzo del latino, che avrebbe dovuto servire unicamente come tramite di misticismo, nella sua musicalità. Dietro questa scelta c’è però una verità più semplice e allo stesso tempo più complessa: Stravinskij non vuole strenuamente essere capito, perché intimamente sente che non c’è per lui più nulla da comunicare.
Eppure, sente lo stesso l’esigenza di inserire un narratore parlante, una figura assolutamente inesistente sia nell’opera che nell’oratorio. A questo spetta il compito di introdurre le scene nella lingua corrente, variabile a seconda del paese in cui l’opera viene messa in scena. Per capire meglio questa scelta e approfondire il ruolo di questa particolare figura abbiamo parlato con la voce recitante dell’Oedipus spoletino, Pauline Cheviller, che ci ha raccontato che:
Come hai detto, il narratore porta il pubblico nell'azione. La musica di Stravinskij potrebbe reggersi da sola, racconta già l’essenziale del soggetto attraverso il ritmo, i cambi di ritmo, i suoni, l’umore, dai vari toni, ecc... racconta già le domande, i guai, le rivolte, il disordine totale… La musica introduce i protagonisti uno per uno per tutta la drammaturgia. Ogni ruolo ha il suo carattere musicale. Il narratore si limita a mettere parole sopra ciò che è già udibile, percepito. Questo è un punto di aggancio complementare. Il narratore stabilisce definitivamente con il verbo ciò che la musica sta già raccontando. Rende concrete le sensazioni.
E la messa in scena? Non esiste. O meglio, c’è ma è come se non ci fosse, tanto è vero che conia un termine specifico per l’Oedipus, opera-oratorio, e specifica che può tranquillamente essere eseguita in forma di concerto. Le indicazioni allegate alla partitura illustrano che non vi dovrà essere profondità di scena, in modo che tutte le voci siano sullo stesso piano e che il coro sia seduto su un’unica linea al centro del palco e che indossi mantelli e cappucci neri per tutta la durata dell’opera. Solo a tre personaggi è concesso di stare in piedi: Tiresia, il Pastore e il Messaggero, anche se comunque i loro movimenti devono limitarsi a coinvolgere solo la testa e le braccia e sul viso dovranno sempre indossare una maschera. Si tratta a tutti gli effetti di una messa in scena mortificante, che nega ogni tipo di teatralità, allontana da ogni forma di possibile empatia e rifiuta con tutte le forze di farsi portatrice di un messaggio altro, che non sia quello esclusivamente musicale.
Schizzi per la messa in scena di Igor Stravinskij
Nonostante queste indicazioni, molti registi contemporanei costruiscono spettacoli che tradiscono le volontà di Stravinskij, come nel caso del riuscitissimo Oedipus Rex londinese con la regia di Peter Sellers, a cui Pauline Cheviller ha preso parte, sempre nel ruolo di voce narrante. Proprio riguardo a quell’esperienza l’artista ci racconta:
Avendo lavorato con Peter Sellars proprio a quest’opera, mi sono resa conto che la sua messa in scena minimalista, composta solo da cinque troni, permetteva di evidenziare, a mio modesto parere, la piccolezza dell’uomo e, allo stesso tempo, la sua magnificenza. Il monumentale e il nulla abissale del mondo. Il vuoto e il pieno. Sempre. È un modo, a mio avviso, di rappresentare simbolicamente e modestamente il mondo così com'è, nella sua essenza, la condizione umana, l'uomo, onestamente, totalmente. La scenografia è un altro linguaggio, un altro strumento al servizio della musica. Tutto deve comunicare, scambiare, alternarsi, tra l'uditivo, il visivo, il sensoriale, per creare emozione e trasmetterla.
Il pubblico seduto, fermo, il coro vi si specchia, seduto anch’esso, immobile. Le maschere che coprono il viso e negano l’espressività, l’annullamento del movimento sulla scena, l’impossibilità di contatto, l’incomunicabilità del soggetto. Facciamo un salto in avanti di novantaquattro anni e arriviamo a Spoleto, oggi. Realizziamo che queste stesse condizioni che Stravinskij ha ricercato sono quelle attualmente imposte a qualsiasi opera teatrale e musicale a noi oggi. È un tuffo al cuore. Siamo noi gli immobili senza volto, quelli fagocitati dall’ineluttabilità del destino, tema cardine di quest’opera-oratorio, senza possibilità di reazione: succubi di ciò che è piovuto su di noi, come in una tragedia greca. Come i tebani, seduti sulle nostre sedioline pieghevoli in Piazza Duomo, assistiamo al dramma collettivo, spettatori impotenti di ciò che avviene di fronte ai nostri occhi. Eppure, una scintilla di speranza si accende, proprio in questa nostra presenza fisica, che sarebbe stata impossibile solo fino a qualche mese fa.
L’ultima domanda che rivolgiamo a Pauline allora riguarda proprio questo, il significato di poter finalmente tornare in scena, pur con tutte le limitazioni del caso:
Tornare in scena è la possibilità di offrire a più persone possibile ciò che sta accadendo in contemporanea sul palco. Battiti, pulsazioni, scambi, sguardi, allo stesso tempo appunto. Cerca di connetterti con i vivi. Uscire, andare a cercare, a cogliere, attraverso i diversi linguaggi di cui parlavo, i diversi strumenti di comunicazione. È saper creare, ricreare insieme uno straordinario momento sacro presente. È poter ricordare che siamo carne, palpitazioni, echi e risonanze. Poter interpretare la vita stessa. Tornare in scena è riaffermare la vita attraverso l'arte.
Pauline Cheviller