Musica

Musica leggerissima, il resto no

Colapesce e Dimartino adolescenti adulti

di Flavia Forestieri

Era il febbraio del 1995 quando Giuseppe Pagano detto Pino se ne stava appollaiato sulla balaustra della balconata del Festival di Sanremo minacciando di buttarsi giù. Aveva deciso di compiere l’estremo gesto scegliendo per sé il più grande palcoscenico italiano, sotto gli occhi di 17 milioni di telespettatori che seguivano la scena in stato d’apprensione. Una cosa del genere non si era mai vista. Poi un (sospettosamente) eroico Pippo Baudo era salito personalmente in balconata per tentare di dissuaderlo: accerchiato da un nugolo di carabinieri Baudo lo aveva abbracciato, baciato, gli aveva promesso di non farlo arrestare e, una volta convinto a scendere, gli aveva anche dato 500 mila lire. Perché Pino voleva farlo? Era disoccupato? Malato? Disperato? Intrappolato in una vita alienata dal lavoro e dalla povertà? Niente di tutto questo. Qualche anno dopo si scoprirà che l’unico vero problema di Pino era quello di essere un signor nessuno. Pino Pagano quella sera su quella balaustra aveva cercato i suoi quindici minuti di celebrità e li aveva ottenuti, rubandoli agli italiani sintonizzati.

È con l’immagine dell’improbabile maglioncino marrone di Pino Pagano che inizia il videoclip di Musica Leggerissima, l’orecchiabilissimo brano di Colapesce e Dimartino presentato quest’anno a sorpresa al Festival di Sanremo. Dico a sorpresa perché chiunque conosca le carriere dei due artisti tutto si sarebbe aspettato da loro tranne che una presenza del genere su un palco di quel tipo. Questo, fondamentalmente, a causa di un grosso pregiudizio che periodicamente viene scalzato per poi tristemente tornare sempre in auge, secondo cui i cantautori di un certo stampo, quelli intellettuali duri e puri (e magari anche un po’ di sinistra) debbano necessariamente, quasi da contratto, evitare il Festival come la peste per non macchiarsi di soldi e banalità. Colapesce e Dimartino però questa retorica la conoscono fin troppo bene e proprio in questo video infilano dentro tutta una riflessione per immagini sul pop italiano, la notorietà, Sanremo e la musica leggera, anzi leggerissima.

Del resto la definizione di “musica leggera” è stata praticamente inventata per descrivere la musica sanremese, quella che negli anni Cinquanta e Sessanta viaggiava in un range melodico lontano dal rock inglese e americano, ma anche lontano dalla musica classica. È una musica tutta italiana che ci accompagna da sempre, quella che “rimane in sottofondo dentro ai supermercati” e “la senti nei quartieri assolati che rimbomba leggera”. Una musica ad uso e consumo dell’ascoltatore più svogliato e sbadato, canzoni che qualche anno fa si sarebbero dette mordi e fuggi, ma che oggi aggiornerei a “streamma e fuggi”. Visualizzazioni, follower, streaming, download, featuring: oggi la musica leggera è una musica fatta anche di questo, di memorabilità, di notorietà, in televisione ma soprattutto sul web. Se fanno un meme su di te ti sei guadagnato la prova della tua esistenza, quanto meno della tua esistenza social. Che la tua presenza virtuale poi sia di tipo trash, commerciale o più seriosa, all’algoritmo di Facebook non importa: se generi dialogo e interazione meriti di essere messo in cima, davanti al resto.

Ma che c’entra tutto questo con la musica italiana? E che c’entra con il progetto Colapesce Dimartino? È presto detto: tutto. Perché insieme, con grande lucidità, ironia, capacità musicale e costruzione testuale, hanno parlato proprio di questo nel loro album I mortali, oltre che di molte altre cose. Per entrambi quella della musica è sempre stata una faccenda che non riguarda la visibilità, ma un mestiere artigiano, lavorato sui palchi di ogni tipo e stazza, in ogni contesto a ogni costo (letterale e figurato). Lorenzo (Colapesce) e Antonio (Dimartino) sono due siciliani di due Sicilie opposte, nati a 250 km di distanza l’uno dall’altro, ma inconsapevolmente già fratelli. Fanno due percorsi musicali separati, anche se su strade molto simili: bar, locali, pizzerie, poi piccoli festival, grandi festival, uno, due, tre, quattro album, cinque con I mortali per Colapesce, sei per Dimartino. Si trovano scoprendosi autori di testi per i big della musica italiana e capiscono che oltre a scrivere insieme possono anche cantare insieme. Nasce così il loro primo disco, che ha come argomento principale qualcosa che avrebbe riguardato molto da vicino tutti noi in questa inaspettata era covid: la morte.

La morte non già funerea, né fatalistica, ma quel senso di mortalità che oggi cerchiamo costantemente di sfidare con la nostra troppa presenza social, ma con la quale alla fine della fiera dobbiamo sempre e comunque fare i conti. Per fare ciò si parla del momento più vitale dell’esistenza di ognuno di noi, l’adolescenza, quando la morte è contemporaneamente un concetto impossibile da capire e un “buco nero che sta ad un passo da noi”. Un’adolescenza non cool, non superomistica, ma fatta di mare, pietre chiare bruciate dal sole, incredibile silenzio e incredibile noia come si vede bene nel bellissimo e troppo poco conosciuto mini film de I mortali, appunto. L’ozio per loro però non è il padre di tutti i vizi, ma di tutte le riflessioni, dei pensieri profondissimi alla ricerca della verità delle cose, costantemente coperti da quel velo di ironia che riesce a farti accettare dagli altri e rendere più sopportabile perfino a te stesso.

L’ironia è la parte fondamentale del progetto Colapesce Dimartino. Di fronte ai giganteschi temi che tirano in ballo mettono sempre questo filtro di ironia che discolpa loro, spezza la tensione e che ci diverte da morire. Lo si capisce bene nel primo pezzo del loro album, Il prossimo semestre dove vogliono essere lasciati soli “come un cantautore”. Cantano, o meglio dicono:

Strofa, bridge, ritornello
Special, ritornello, strumentale
No-no-no, no, strumentale no, la gente si annoia.
Ma che faccio? Parlo dei migranti?
Per carità, i migranti, no...
Ci vuole il tema sociale.
Ho pochi diritti su questo brano, solo doveri.
Vai sul sicuro, scrivi una canzone d'amore.
Devi sembrare impegnato senza esserlo, rassicurante.
Ma dove sono gli ascoltatori di una volta?
Sono stanchi.
Saranno stanchi. A casa.
Ci vuole una hit.

Pochi versi che riassumono con divertente lucidità il sistema produttivo troppo spesso nascosto dietro l’attuale panorama musicale nostrano, di cui loro stessi sono parte integrante nel momento in cui diventano autori per altri. Un riassunto per frasi fatte (e altre meno) dell’artificialità quasi sempre più posticcia del genere pop attuale. “Ci vuole una hit”, dicono, e nella nuova edizione dell’album ampliata di ulteriori dieci brani, I Mortali2 la hit arriva al brano successivo: la famosa Musica Leggerissima. Per essere una hit, lo è. Lo è diventata nel momento in cui, come spessissimo accade in ogni edizione di Sanremo, il giorno dopo la vittoria dei Måneskin (canzone di felice successo ma non altrettanto trapanante) mentre lavavamo i piatti o piegavamo i panni o portavamo a spasso il cane ci siamo scoperti tutti a canticchiarla senza sapere quando avevamo avuto il tempo di impararla.

Però c’è un trucco. La musica è accattivante, di quelle che è impossibile dimenticare, ma il testo non è assolutamente quello di una hit. Si parla di Dio, un Dio che si fa attendere e “non esce fuori col temporale”, di tutto quello che ci perdiamo nella nostra “indifferenza animale”, dell’abisso che è lì “a un passo da noi” e che osserviamo con la stessa scioltezza con cui gli anziani osservano lo sviluppo dei lavori nei cantieri. La musica è leggerissima ma il significato è pesantissimo, così come il lavoro che c’è dietro a questo incredibilmente funzionante mix di leggero/pesante è stato durissimo, fatto di scritture e riscritture di mesi, per raggiungere un incredibile effetto sorpresa, un colpo di teatro di quelli di cui ti accorgi solo a cose fatte: una canzone profondissima su una musica leggerissima.

Con una soluzione molto diversa sono riusciti ad ottenere ciò che Pino sperava di guadagnarsi a cavalcioni su quella balaustra dell’Ariston quasi trent’anni fa. Grazie al megafono gigantesco che è il palcoscenico di Sanremo sono entrati nelle case degli italiani, da quelle delle nonnette col rosario in mano a quelle dei vecchi intellettuali che ancora fanno finta di non guardare Sanremo ma hanno la tv casualmente accesa su Rai 1, fino a quelle dei ventenni col cellulare in mano con un occhio a Twitter e uno al televisore, travestendosi da hit, ma parlando di cose che in una hit non troveremo mai. Con i loro falsetti, il ballo a gambero con le mani a paletta, la loro espressione in ogni caso sempre serissima si sono guadagnati di diritto un posto in quell’ambitissima teca dei personaggi “famosi” riempiendo di musica leggera il “silenzio assordante” dei nostri anni.

Se si bypassa tutto questo, però, si prende il disco e ci si apparta con le cuffie in luogo silenzioso della propria casa e lo si sente dall’inizio alla fine, si capisce che Colapesce Dimartino sono molto di meno e molto di più del palco Sanremese. Se si chiudono gli occhi e si impiega quell’oretta a fare nient’altro che ascoltarli si capisce che sono ancora quei due ragazzi siciliani che nella vita non vogliono fare altro che prendere una chitarra in mano e provare a raccontare quello che sentono, il loro tempo, i loro luoghi emotivi e fisici. Allora cerco su YouTube il video di Toy boy, la loro ultimissima canzone con Ornella Vanoni, di un’ironia e autoironia da far paura, lo guardo e rido. Rido di cuore, come si ride per le cose fatte davvero bene ma senza pretese. Poi lo condivido sui miei gruppi Whatsapp, ridono anche loro, ma poi basta. Predo il disco (digitale, s’intende), prendo le cuffie, mi acciambello sul divano e me ne vado per un po’ in Sicilia di fronte all’Istituto Majorana immaginando di scomparire anch’io come i protagonisti della canzone, in una nuvola di fumo.