Monique Veaute, un festival a porte aperte

Antonio Mancinelli

Se si dovesse condensare in una sola parola la personalità di Monique Veaute, probabilmente sarebbe “curiosità”. Nel 1982 ha fondato e diretto la sezione Musica della Biennale di Parigi, per poi partecipare alla creazione del Festival Musica di Strasburgo. Nel 1984 ha dato vita al Festival di Villa Medici, a Roma. Presidente onorario della Fondazione Romaeuropa, già direttore generale di Palazzo Grassi a Venezia, nel 2020 è stata nominata direttrice artistica del Festival dei Due Mondi a Spoleto. Anche quest’anno, ha disegnato un mosaico di relazioni alle arti che si condensa intorno a tre linee programmatiche: la musica dei due Mondi, la voce delle donne e i nuovi modi di raccontare la musica e la danza.

 

Tutto questo senza ovviamente trascurare il teatro o l’Opera, ma cercando di restituire al Festival sia lo spessore cosmopolita e trasversale di cui l’aveva aureolato il fondatore Gian Carlo Menotti, sia il suo ruolo di sismografo del presente – e anche un po’ del futuro – con una continua indagine che va da talenti affermatissimi fino a nomi nuovi che, in alcuni casi, fanno il loro esordio in Italia. Sicuramente dotata di grandissime capacità organizzative, coltiva la sottile arte dell’understatement e dell’humour, sia pur sempre corroborati da una disciplina ferrea. «Direi che gli indirizzi che Menotti aveva dato al Festival sono generici, ma molto interessanti: originalità, novità e rarità. Queste tre parole permettono, effettivamente, di considerare qualsiasi campo della cultura in questa chiave di lettura: qualcosa di raro, anche se oggi è molto più difficile. Lui scoprì artisti incredibili», ha dichiarato.

Monique Veaute © Studio Hänninen

La domanda le sembrerà banale: ma per quale motivo, anche personale, ha accettato l’invito alla direzione? È un ruolo non privo di difficoltà…

Perché è uno degli appuntamenti culturali più longevi, c’è da 64 anni. Allora mi sono domandata: se gli altri Festival nascono e spariscono evidentemente Spoleto ha rappresentato qualcosa di veramente importante per la diffusione delle arti in tutto il mondo. E quindi mi sono detta: «C’è qualcosa che risiede nelle origini di questa manifestazione» e per questo si doveva ricercare il suo Dna. C’è l’idea di esplorazione del futuro, mettendo sempre al centro della scena gli artisti.

 

E che cosa ha scoperto?

Che aveva un modo di interpretare il classicismo in modo rivoluzionario. Proprio come oggi, quando i giovani vanno verso i testi teatrali del patrimonio ma reinterpretati, e l’ascolto della musica classica vede come esecutori degli artisti innovativi. Questo “metodo” appartiene anche a me: per esempio, trovo anche molto interessanti degli autori che partono dalla musica: Jeanne Candel con lo spettacolo Demi-Veronique, s’ispira alla Sinfonia n°5 di Gustav Mahler; sempre Jeanne Candel con Samuel Achache dirigono Le Crocodile trompeur, un’opera contemporanea che prende l’avvio da Dido and Aeneas di Henry Purcell.  Mi affascina chi prende il via dal mondo musicale per arrivare a risultati sorprendenti.

 

Anche quello di Menotti aveva un andamento polisemico, si rivolgeva a vari settori e a vari pubblici…

Anche in questa edizione vi sarà una molteplicità di eventi che riguardano temi della contemporaneità. Per esempio, su un argomento che ci sta molto a cuore come la sostenibilità, vi saranno una serie di interventi e contributi veramente numerosi.

In campo culturale, pensi solo al riutilizzo dei costumi o delle scenografie…

 

Da parte sua c’è stato un grande lavoro di scouting…

Certo. Sono andata a cercare le nuove generazioni di ballerini, attori, cantanti, musicisti. Per esempio, nel caso della coreografa argentina Ayelen Parolin – amatissima dai giovani – quando sono andata a vederla la prima volta, sembrava che il suo balletto WEG fosse totalmente caotico e poi ero l’unica del pubblico ad avere i capelli bianchi. Eppure, mi ha conquistata, e in questa alternanza di miti consolidati come Thomas Ostermeier e nomi recentissimi come Yoann Bourgeois, che Spoleto tornerà a essere, secondo me, un epicentro culturale destinato a tutti, ma come sempre di qualità eccelsa. È strano: sono cinquant’anni che faccio questo mestiere e ogni volta ci si dice «non si può inventare nulla di nuovo», e invece no. Anche su un testo o una musica preesistente, trovi sempre uno sguardo, un punto di vista, una lettura a cui non avresti mai pensato prima. Ed è bellissimo.