Teatro

Famiglie di animali inconsolabili

Il nuovo lavoro di Lucia Calamaro

di Graziano Graziani

A Ushuaia, nella Terra del fuoco, c’è un punto dove corso Magellano incrocia via Darwin. La località argentina si trova a pochi chilometri da Capo Horn, sul canale di Beagle, ed è considerata la città più a sud del mondo. Passeggiare per le sue strade, grazie alla sua particolare toponomastica, equivale a fare un viaggio in miniatura tra i grandi protagonisti dell’epoca delle scoperte, geografiche e scientifiche, che in effetti proprio in Patagonia, sia pure in epoche diverse, si sono dati idealmente consesso. Il canale dove si affaccia la città, ovviamente, deve il suo nome all’imbarcazione su cui un Darwin ventiduenne si imbarcò alla volta di un viaggio che avrebbe cambiato la sua vita e la nostra concezione del mondo: l’HMS Beagle.

Il Darwin che troviamo nel titolo del nuovo lavoro di Lucia Calamaro, che debutta a Spoleto il 2 luglio, è un “Darwin inconsolabile” – condizione, supponiamo, assai lontana dallo zelo e dallo scrupolo entusiasta che dovette caratterizzare l’avventura del giovane naturalista inglese, salpato per un viaggio intorno al mondo nel dicembre del 1831. Cosa mai è successo in questi centonovanta anni?
Nello spettacolo di Lucia Calamaro, in realtà, di Darwin si parla soltanto di striscio, a proposito di un’ipotetica e poco chiara versione manoscritta e inedita dell’Origine della specie, citato in una conversazione tra i più geniali inventori di finzioni della letteratura del secolo scorso, Borges e Bioy Casares. A farne menzione è uno dei quattro personaggi di una compagine familiare che, anche solo abbozzata nel comunicato dello spettacolo, sembra già assumere toni memorabili: un’anziana madre che pratica una speciale forma di “tanatosi emotiva”, una figlia performer che ha a sua volta per fratelli un’ostetrica ambientalista e un maestro elementare. Siamo nel qui ed ora, ma anche nel “sempre”, perché la famiglia non è soltanto la sede naturale di quegli archetipi che ognuno di noi si porta dentro, spesso urlanti come banshee, per il resto della propria esistenza. La famiglia è piuttosto, in un certo senso, una membrana tra il soggetto e il mondo, un’estensione del sé verso il fuori ancora parziale, tutelata dalla sfera domestica, dove proprio grazie a questa protezione forzata ci si ritrova nel migliore brodo di coltura per dare corpo e forma ai propri fantasmi. È quindi sì, un luogo fisico e sentimentale, ma è anche e soprattutto un’estensione di se stessi.

È per questa ragione che trovo il titolo di questo spettacolo magnetico e spiazzante allo stesso tempo. Perché l’idea di unire in uno strano ircocervo la famiglia – e cioè lo spazio dove la persona si individua, per così dire, e assume la propria problematica fisionomia – e le teorie dell’interspecismo e del prospettivismo di un antropologo come Eduardo Viveiros de Castro, è un’idea perturbante e piena di fascino. Come d’altronde, per certi versi, sono i tempi incerti che viviamo.

Oggi l’antropologia, assieme all’odierna cosmologia, è forse la scienza più visionaria che abbiamo a disposizione, perché cerca in ogni modo di strapparci a una visione antropocentrica oramai inservibile e riconsegnarci almeno in parte un’idea di futuro. Un futuro che sembra essersi inceppato con la crisi ambientale ed economica, che si rifrange in una miriade di altre crisi di carattere sociale e personale. Per cominciare a riprendere in mano l’immaginazione del futuro è necessario cominciare a immaginare la possibilità di essere, come specie, eventualmente anche fuori da esso. L’antropologia compie questo scarto suggerendoci di guardare al regno vegetale, ad esempio, o al regno animale, alla ricca trama di simbologie e relazioni che possiedono e che sono in continuo dialogo con noi.

E il teatro? Il teatro, beh, è per definizione il regno dell’umano. Tentativi di teatro postumano, sia pure azzardati nei decenni precedenti, si sono sgonfiati con l’affievolirsi delle prospettive teoriche e delle mode che li sostenevano. In questo spettacolo di Lucia Calamaro quello che trova spazio è ancora una volta l’umano, la relazione tra gli individui, l’essere in bilico perenne tra ridicolo e disperazione. Ma il fatto che tutto ciò avvenga come sul davanzale di una finestra che affaccia sulle pieghe di un futuro nebuloso, colloca nuovamente la vertigine della fuoriuscita da sé dentro la nostra piccola esperienza umana.

I personaggi, in fondo, descrivono questo movimento già a partire dalle loro biografie, dalla preoccupazione ambientalista a quella pedagogica, fino all’imitazione della pratica animale della “tanatosi” da parte della matriarca: se un animale si finge morto per sfuggire a un predatore, lei lo fa per ottenere dai figli quella che è ai suoi occhi la giusta dose di attenzioni.

Come riuscire ad ottenere questo movimento che è allo stesso tempo verso il dentro e verso il fuori con i soli strumenti del teatro? Lo scopriremo in questo debutto spoletino. Ma sul teatro di Lucia Calamaro va detta una cosa (“teatro” e non solo drammaturgia, per la quale è maggiormente famosa: il suo teatro parte da lì ma è molto di più). Lucia Calamaro è specializzata nelle imprese impossibili, nell’infrangere i tabù dello spettacolo e della scrittura. Non si può parlare di morte negli spettacoli contemporanei, meno che mai farlo esplicitamente nei titoli; e lei ha costruito un esordio folgorante intitolato Tumore. Parlare di psicoterapia e rapporti familiari evoca lo psicodramma, da evitare come la peste; e lei ha costruito uno spettacolo come l’Origine del mondo, vincitore di tre premi Ubu, scrittura lucidissima, comica e lirica allo stesso tempo. Il divino è un argomento praticamente indicibile; e lei costruisce un affresco quotidiano eppure speculativo sulla Nostalgia di Dio. Insomma, con il teatro di Lucia Calamaro l’unica cosa da fare è sedersi in sala e aspettare di capire in quale recondita parte di sé stessi si verrà proiettati, pur divertendosi a seguire le fissazioni e i ragionamenti di personaggi memorabili (qui interpretati da due attori che hanno già “indossato” molto bene le sue parole come Riccardo Goretti e Simona Senzacqua; un’artista atipica e folgorante come Gioia Salvatori; una professionista delle scene come Maria Grazia Sughi).

Uscire dal sé, è piuttosto evidente, è sempre una gran fatica. Perché lì fuori chissà che cosa ci attende. Magari l’opposto di quello che sono le nostre convinzioni sul mondo. Levi-Strauss definì “tristi” i tropici perché il loro presente travolto dal progresso preconizzava la scomparsa delle culture tradizionali che lui, in quanto antropologo, andava cercando. In fondo quei luoghi disattendevano il carico di autenticità che “avrebbero dovuto” possedere. E se fosse la prospettiva ad essere sbagliata? Allora quella tristezza, più che ai tropici, apparterrebbe all’occhio che li guarda. Apparterrebbe alla fatica che ci vuole per uscire da sé. Chissà perché, leggendo il titolo “Darwin inconsolabile”, mi è venuto subito alla mente il classico del grande antropologo francese. In fondo anche noi ci troviamo di fronte a un punto di svolta della specie, tra cambiamenti climatici e crisi del modello produttivo. E allora è giusto guardare al presente, alle relazioni, alle impasse del futuro, con quel carico di inconsolabilità che l’autrice romana attribuisce a Darwin, ma che forse è uno spleen – anche un po’ comico, c’è da scommetterci – che appartiene a tutti noi.