Teatro
Erotismo e cinismo del giovane Čechov
il lungo confronto di Liv Ferracchiati con Platonov
di Graziano Graziani
Nonostante la parola greca theatron significhi press’a poco “luogo in cui si guarda” – per la sua radice legata al verbo osservare – il teatro, c’è poco da fare, è una delle arti che più hanno a che fare con l’invisibile. L’affermazione, mi rendo conto, sfiora la retorica, però se andiamo oltre i lazzi del linguaggio evocativo con cui solitamente raccontiamo il “piccolo mondo” (come lo chiamava Bergman), si tratta a ben vedere di una questione quasi tecnica. Quando entriamo a teatro, se si innesca quel processo che Coleridge chiamava “sospensione del dubbio” e che oggi, più comunemente, definiamo “sospensione dell’incredulità”, finiamo per sprofondare nello spettacolo per vedere, inevitabilmente, molto di più di ciò che, fisicamente, si imprime sulla nostra retina. Questo processo è anche alla base del motivo per cui uno spettacolo che ci sembra meraviglioso dal vivo può sembrarci noioso in video (fatte salve alcune regie televisive, di solito girate senza pubblico, pensate appositamente per restituire la dinamica che avviene sul palco). C’è sempre un pezzo di spettacolo, insomma, che si materializza fuori dal campo visivo propriamente detto, in una sfocatura, in un momento in cui magari vediamo qualcosa ma non stiamo davvero “guardando”. Magari in un momento in cui siamo perfino distratti, ma quella distrazione si rivela essere una specie di stato di grazia – un po’ come per lo spettatore addormentato di Flaiano. Questo flirt che la scena intrattiene con l’invisibile finisce per collocare il “piccolo mondo” nella sfera che una volta apparteneva alla dimensione religiosa (allerta retorica!), ed è per questo che alcune domande di carattere esistenziale finiscono per essere affidate proprio a quelle relazioni umane complesse e dolorose e a quelle parole incantatrici che vediamo su un palco.
"La tragedia è finita, Platonov" di Liv Ferracchiati. Foto ©Luca del Pia
Ribaltando la prospettiva dallo spettatore all’artista, questo dialogo con l’invisibile può produrre qualcosa che nella retorica giornalistica corrente definiremmo “ossessione”, ma proseguendo invece sul solco della nostra metafora spirituale potremmo definire “possessione” o, qualora si manifesti in modo benevolo, “intelligenza angelica”. Come una presenza invisibile e muta, alcuni testi, alcuni personaggi, si annidano nel pensiero dei teatranti per anni e anni. Questo sembra essere avvenuto per Liv Ferracchiati con il Platonov di Čechov. Tra i nomi di punta della nuova generazione di registi, Liv Ferracchiati ha incontrato Platonov durante gli studi in accademia, quando aveva ventisette anni, proprio come il protagonista del testo giovanile del drammaturgo russo, mai messo in scena mentre lui era in vita. Un testo minore, potremmo dire, nemmeno davvero finito se è vero che la stesura finale fu bruciata dallo stesso Čechov come gesto di stizza per il rifiuto ricevuto dal Teatro Malyj di San Pietroburgo, cui aveva consegnato l’opera, mentre la versione che possediamo è stata pubblicata postuma e senza titolo (Platonov è solo il modo con cui, convenzionalmente, viene indicata l’opera).
Per quasi dieci anni Platonov segue Ferracchiati come un compagno invisibile, una presenza – sia essa demoniaca o angelica – che si inserisce nel percorso creativo del regista a partire da una serie di connessioni: l’età anagrafica che condivide con il personaggio quando lo affronta per la prima volta (le coincidenze, per un artista, non sono mai davvero “conoscenza” ma sempre e comunque “possibilità”); la scoperta di un’energia particolare che attraversa il testo minore di un grande maestro, che quando lo scrisse era tutto meno che “grande” e “maestro”, bensì un diciassettenne pieno di furori e voglia di afferrare il mondo; forse il fremito che coglie inevitabilmente gli artisti che hanno attraversare la temperie postmoderna, dal secondo Novecento a oggi, di fronte alle opere minori, incompiute, laterali, e alle infinite possibilità che offre questa loro posizione sbilenca. E poi, certamente, c’è una frase. Come un mantra, un’orazione, una formula magica in grado non tanto di invocare il bene quando di propiziare il dubbio.
“Perché non viviamo come avremmo potuto?”
“Si tratta di una frase che Platonov rivolge prima a se stesso e poi agli altri personaggi – spiega Liv Ferracchiati – e tutto il lavoro sul testo si origina da lì, da quella frase. In questa battuta c’è tutto il mondo di Platonov e forse anche tutta la scrittura di Čechov”.
Questa domanda accompagna il regista dalla prima scoperta del testo fino a oggi, alla sua messa in scena. Messa in scena che, si badi bene, non coincide completamente con la scrittura originale: non a caso, il lavoro che andrà in scena a Spoleto dal 9 all’11 luglio si intitola La tragedia è finita, Platonov, ed è il risultato di una stratificazione tra il testo cechoviano e una drammaturgia originale di Ferracchiati che si sostanzia in un personaggio esterno al dramma, aggiunto per l’occasione: un lettore. Il lettore è il personaggio che più dialoga col pubblico, rivolgendosi ad esso attraverso una serie di monologhi che pian piano si sovrascrivono al testo di Čechov. Un po’ come se Ferracchiati avesse voluto restituire pan per focaccia a quella presenza silenziosa e costante – quella di Platonov – che l’ha accompagnato per tutti questi anni. Ma, forse, anche un meccanismo per maneggiare con cura quella domanda capitale che Platonov rivolge a se stesso e a noi: perché non viviamo come avremmo potuto? Eccola lì la questione esistenziale, l’interrogazione dell’invisibile che possiamo davvero affrontare solo attraverso il filtro del teatro. Nella realtà di tutti i giorni scatterebbe, nuovamente, l’allarme retorica cui facevamo riferimento prima, o tutt’al più ci daremmo una scrollata di spalle e diremmo che sono questioni oziose: il lavoro, le relazioni sentimentali e familiari, ci determinano molto di più di quanto pensiamo di essere in grado, noi stessi, di determinare loro. Mettere in crisi questa ragnatela di relazioni assomiglia più alle velleità di un adolescente che a una possibilità concreta. Eppure quella questione sotterranea – perché non viviamo come avremmo potuto? – agita i sogni delle donne e degli uomini molto più di quello che pensiamo.
"La tragedia è finita, Platonov" di Liv Ferracchiati. Foto ©Luca del Pia
Platonov, d’altronde, è un cinico. È il personaggio perfetto per esplicitare quello che normalmente non saremmo in grado di dire, per dare materia all’invisibile. Tanto più che è un uomo che non sceglie, che non si cristallizza nelle relazioni, e non tanto perché il suo comportamento sia un inno alla libertà, quanto perché il suo stesso sprezzo finisce per spalancargli le porte di un nichilismo senza uscita.
“Platonov – racconta Ferracchiati – a un certo punto del testo dice: ho ventisette anni e per i trenta non prevedo cambiamenti. Questa frase mi ha fatto sobbalzare sulla sedia. Avevo la stessa età, ero in accademia, in un mondo a suo modo protetto, e l’ingresso nel mondo reale, l’inizio del lavoro di regia, mi appariva lontanissimo. Le cose andarono diversamente, in realtà, perché due anni dopo esordii a livello professionale, ma in quel momento mi sembrava di utilizzare tutte le mie energie per qualcosa che non si concretizzava mai. Di sbracciarmi, di vogare – come avviene in scena, una scena scarna dove spicca proprio un vogatore da allenamento – senza spostarmi davvero. Platonov, si dice, è un fallito, perché è un uomo incapace di scegliere, a cui manca la spinta all’azione. Tuttavia il fallimento, se così vogliamo chiamarlo, va osservato da diverse prospettive per capire la sua natura. A me, ad esempio, il suo dramma suggeriva una potente riflessione sulla libertà: vogliamo essere liberi, in certi casi affermiamo di esserlo, ma in realtà si tratta principalmente di un’utopia. Esistono una serie di condizioni, materiali, sociali, che spesso ci impediscono di essere ciò che vogliamo. Persino fisicamente il nostro corpo ha dei limiti, fisici, che ci costringono in una condizione molto diversa dalla libertà: basta pensare all’età, all’invecchiamento, che non ci consente di fare cose che vorremmo fare, o a un corpo che non ci rappresenta. Con il limite dobbiamo sempre fare i conti, anche per affrontarlo; ma la libertà assoluta resta di fatto un’utopia”.
I temi che Liv Ferracchiati snocciola nella sua riflessione su Platonov sembrano entrare in risonanza con molti aspetti del nostro presente. La libertà che ci raccontiamo di possedere, le sue trappole, ma anche il senso di impotenza, di essere sempre sul punto di agire senza davvero farlo mai – tema che interessa molto le giovani generazioni in un paese a forte componente anziana come il nostro. Eppure, quando azzardo il parallelismo, la sua risposta è che queste questioni sono di fatto universali, appartengono all’essere umano probabilmente in ogni tempo. D’altronde la qualità di un autore classico, in grado cioè di sfidare il tempo come fa Čechov, è proprio quella di riuscire a posare lo sguardo anche su una porzione infinitesimale di mondo – un tempo, un luogo, una cultura precisi – e di saperne cogliere l’aspetto profondo che agita l’animo umano e giunge intatto fino a noi. E il fatto che il “Platonov” sia un testo giovanile, in un certo senso incompiuto, che non giunge alla perfezione stilistica dei lavori cechoviani più maturi, dove il protagonista – come avviene in molte opere prime – è modellato sui grandi riferimenti letterari dell’allora diciassettenne autore, come l’uomo superfluo di Lermontov o il Don Giovanni citato espressamente nel testo, è secondo Ferracchiati tutt’altro che un limite. Perché nel testo di un adolescente che si affaccia alla scrittura drammatica si avverte un energia potente, forse meno raffinata ma impetuosa, che sarà da stimolo per le scritture a venire. Per questo, secondo Liv Ferracchiati, questo è il più “erotico” dei testi del drammaturgo russo.
I personaggi in scena sono meno di quelli presenti nel testo. Oltre all’invenzione del lettore e al protagonista, le altre presenze sono ridotte alle quattro donne che girano attorno a Platonov. Anche questa è una scelta precisa, che evidenza l’impasse esistenziale del protagonista, conteso e desiderato ma non in grado di scegliere.