Un irregolare di downtown:
John Zorn e l’instabilità della mutevolezza
«If Mozart were alive today, believe me, he’d be incorporating all those instruments [electric guitar, drum set, electric organ, saxophone, turntable] and writing for them. And he would also be listening to all this different music that is around. It’s not an unusual thing for a creative person to be interested in creativity».
«Se Mozart fosse vivo oggi, credetemi, includerebbe tutti questi strumenti [chitarra elettrica, batteria, organo elettrico, sassofono, giradischi] e comporrebbe per loro. E starebbe anche ascoltando tutta la musica diversa che c’è in giro. Non è una cosa insolita per una persona creativa interessarsi alla creatività».
John Zorn
Roland Barthes sosteneva che «Être d’avant-garde, c’est savoir ce qui est mort; être d’arrière-garde, c’est l’aimer encore» (Essere all’avanguardia significa riconoscere ciò che è morto; essere di retroguardia vuol dire continuare ad amarlo). A John Zorn, personalità poliedrica quanto inquieta e indifferente alle categorizzazioni altrui (Conan Doyle ne avrebbe sicuramente fatto un irregolare di Baker Street), è successo – e ancora succede – di trovarsi a occupare contemporaneamente le due sponde che Barthes menzionava. Quello di Zorn non è però un percorso fra tradizione e trasgressione, ma l’occupazione contemporanea di più contesti diversi, anche opposti, in cui negoziare lo spazio per qualcosa di nuovo. Questa curiosa e vibratile ubiquità, che è forse frutto di volontà e capacità tutte ebraiche di porsi incessantemente al di fuori di ogni consuetudine, abitudine o tradizione consolidata (Zorn, infatti, non è un enfant gâté irriverente, ma un iconoclasta nel pieno di una bella maturità), è plausibilmente l’aspetto più affascinante dell’opera di un onnivoro autodidatta, cresciuto e maturato senza altre regole che non le proprie e uso, perciò, a cogliere in contropiede chi compie l’errore di aspettarsi da lui un elemento di confortante prevedibilità.
Per volontà del caso, Zorn ha vissuto sin dalla giovinezza in un contesto in cui le abituali gerarchie erano sovvertite o confuse: un fatto non inusuale in una società poli-etnica, in cui può capitare, nella stessa famiglia, di celebrare sia il Natale che Hanukkah, di avere una mezuzah e di frequentare una chiesa: non casualmente, Zorn, che pure non è un ebreo osservante, indossa abitualmente lo tzitzit (le frange rituali), non per un atto religioso ma “per un fatto spirituale”, per un aggrapparsi, dunque, a delle certezze identitarie intimamente sentite, per quanto – ancora una volta! – al di fuori delle regole abituali. Abituato all’ascolto di vari tipi di musica già in famiglia, studente insofferente e irregolare, egli ha saputo e voluto costruire un proprio linguaggio da quasi autodidatta attraverso un processo che Mário e Oswald de Andrade non avrebbero avuto difficoltà ad inserire esemplarmente nelle loro teorie sull’“antropofagia culturale”. Su di una curiosità vorace e continua e su di un ascolto intensivo di un numero incalcolabile di materiali musicali provenienti da ogni dove, Zorn ha costruito un proprio rigore e una propria disciplina, creando strati su strati di conoscenze diverse che, per quanto apparentemente non collegabili fra di esse, egli cionondimeno ha saputo far dialogare, scovando referenti e nascosti riferimenti, impensate allusioni e coincidenze, smarrite corrispondenze. L’imprevedibilità linguistica che ne è emersa potrebbe parere caotica ai più o, peggio, eclettica o, peggio ancora, un’estrema propaggine del post-moderno, il che rappresenta adeguatamente il disagio di molti nel sentirsi privare delle più comode ma calcificate consuetudini.
Zorn fa uso delle conoscenze che egli possiede della tradizione per operare una loro “ri-lessicalizzazione”, più che per una volontà trasgressiva fine a sé stessa. Il ragionamento che egli segue in certi lavori, e che parrebbe essere chiaro solo a lui, ha invece una sua logica nel delineare un percorso da montagne russe che costringe l’ascoltatore a rivelare la fragilità delle proprie certezze. Sbaglierebbe, però, chi pensasse che l’ascolto della sua opera, nelle sue numerose sfaccettature (documentate peraltro da una cospicua produzione discografica), rappresenti sempre e comunque una sfida o un gioco crudele: in un’apparente ricomposizione della torre di Babele in cui proprio la cospicua diversità diventa il fattore unificante, emergono momenti di squisito lirismo e prolungati squarci di estatico melodismo, oasi ineffabili che fanno da trait d’union fra reiterati materiali in instabile equilibrio nel loro ripresentarsi ma che, nel ripetersi pur in vesti diverse, creano una traccia, una “sottile linea rossa” associativa che fornisce unità e logica. L’autore, infatti, porta ad esempio la strutturazione delle altezze in un lavoro come Octandre di Varèse o l’uso degli intervalli fatto da Elliott Carter o, ancora, la manipolazione che in una pagina come Elegy egli ha fatto di più materiali tratti da Le Marteau sans Maître di Boulez: «in realtà non individuavo frasi, le estrapolavo per usarle a mo’ di citazioni. Piuttosto, ho usato la partitura nel modo in cui Schönberg avrebbe fatto uso di una serie o di uno schema dodecafonico. L’ho usata come punto di partenza. A volte invertivo le sequenze di altezze; a volte usavo le altezze della viola ma le attribuivo al flauto; a volte prelevavo un ritmo da uno strumento e le altezze da un altro e li mettevo insieme. (…) Evidenziavo alcune aree che mi piacevano e le riutilizzavo in una miriade di modi. Non mi è mai interessato prelevare un’intera battuta; direi che si tratta di materie prime che intendo sfruttare: questa scala, questo insieme, questo tipo di multifonico, ecc., ecc. È tutto così incredibilmente organico da lasciarmi stupefatto» (cit. in Ann McCutchan, The Muse That Sings: Composers Speak About the Creative Process, Oxford University Press, Oxford 1999).
Molti autori post-moderni ignorano o trascurano volutamente le regole e si affidano a etichette, a categorie di cui poi si è costretti a fare la spunta per capire in che ambito includere l’opera: pastiche, intertestualità, inter-referenzialità, frammentazione, parodia, “parostiche”, assenza di profondità, frammentazione, frammentazione del soggetto… L’opera di Zorn parrebbe, ad un’analisi superficiale, rifiutare una norma comune fra autore e ascoltatore, sostituendola con una pluralità infinita di linguaggi; soprattutto, parrebbe non avere una cifra stilistica e individuale talmente forte da essere capace di farsi sovvertire, omaggiare e appropriare o abbassare ad opera di altri: esisterebbe, dunque, solo un linguaggio impersonale, fatto di mille superfici e giochi citazionali, in cui non sarebbe possibile fare distinzione fra originale e copia. In realtà, dalla sua voracità di conoscenza il compositore e strumentista newyorkese ha tratto una severa serie di norme, regole e codici in grado di reggere l’impalcatura pratica del suo pensiero: lungi dall’inclinare verso il gusto irrazionale e cinico del gioco citazionista, la sua opera (dalla melodica “ri-mediorientalizzazione” della tradizione musicale yiddish all’interesse per la mistica e la magia, dal lirismo di una recente produzione liederistica alla rievocazione dell’improvvisazione jazzistica post-bop e post-colemaniana, dal thrash-jazz all’expressive noise, dagli omaggi ai protagonisti ebrei della cultura musicale popolare novecentesca al fantastico post-cage- ano, dal crudele e “bataillesco” erotismo giapponese all’interesse per i linguaggi più estremi della sperimentazione improvvisativa e popolare di oggi sino al permutatorio e curioso “conservatorismo” di lavori accademici ispirati dalla lezione di Wuorinen, Boulez, Stravinskij, Carter, Xenakis, Schönberg e Berg) riflette compiutamente l’inquietudine di fronte all’impossibilità crescente, per l’artista, di contenere in un solo lavoro la totalità dell’ecumene. Egli perciò la parcellizza, dedicando ad ogni aspetto preso in esame una specificità linguistica (condivisa con un ristretto numero di interpreti scelti per comune sentire e per consolidata abitudine di far musica insieme: ciò che potrebbe apparire banale nelle mani di alcuni, diventa innovativo in quelle di altri), tratta dalla sua capacità di porre in relazione una pluralità di tradizioni e linguaggi: pochi artisti contemporanei sanno esprimere con tale compiutezza e varietà il desiderio di equilibrio ed integrazione fra diversità espresso dalla millenaria esperienza diasporica ebraica.
Barbara Hannigan è altra interprete cui Zorn ha dedicato la specificità di alcuni lavori che l’artista ha letteralmente “vissuto” accompagnata dall’autore. Tant’è che forse sarà difficile “separarla” da essi e sarà ancora più difficile per altri interpreti cancellare dalla memoria certo ricordo. Jumalattaret, ad esempio, risale al 2012, ma solo l’incontro fra l’autore e Hannigan ha permesso che vivesse musicalmente. Si tratta di un lavoro il cui testo è tratto dal poema epico nazionale finlandese, Kalevala, composto da Elias Lönnrot nella metà dell’Ottocento, sulla base di poemi e canti popolari della Finlandia (soprattutto in careliano, un dia- letto strettamente correlato al finlandese). Lönnrot assemblò e ricostruì la memoria storica dei popoli finnici attraverso i canti prodotti dalla loro poesia tradizionale, riunendone in una sola opera la cosmogonia iniziale e il ciclo eroico/mitologico. Nel caso di Jumalattaret il testo è, in realtà, un pre-testo, un praetextum, un qualcosa di ornamentale e non sostanziale, perché i nove lacerti, preceduti da un’invocazione e seguiti da un postludio, che Zorn sceglie e che sono ognuno dedicato a una divinità femminile del popolo Sami, non vengono mai cantati ma solo mormorati in quello che si configura come un rituale estatico espresso da una vocalizzazione senza parole e di ostica realizzazione. Se l’invocazione iniziale pare presagire un effusivo lirismo melodico, in realtà esso svanisce presto per lasciare spazio a delle furenti, sciamaniche acrobazie vocali rese ancora più difficilmente gestibili da una parte per pianoforte fuori sincrono che non condivide con la linea di canto gli accenti ad ogni inizio di battuta: un “anti-accompagnamento” che prosegue per l’intero lavoro, cospargendolo di figurazioni poliritmiche intricate e angolose. Pagina intrisa di un’ipnotica e simbolica sacralità laica, omaggio a un’indomabile energia femminile che traspare pure nella fisicità e nella gestualità cui è spinta l’interprete, Jumalattaret chiede alla voce di cinguettare, sospirare, mormorare, ridere in preda a possessione, compiere arditi salti di registro, far emergere gli armonici naturali come nel canto difonico, affrontare sequenze ritmiche di estrema complessità, farsi strumento percussivo (è previsto pure che la cantante suoni le percussioni e batta le mani), affrontare linee prolungate in un sol fiato (all’inizio è esemplare una frase in cui cinque battute di crome sono seguite da una nota sostenuta per un’intera battuta) e una micidiale cadenza in cui ad ogni passo l’intonazione corre rischi. Ciononostante, la varietà che il compositore riesce a ottenere da una molteplicità di tecniche di diversi linguaggi (jazz, folk, il rock più estre- mo) ha qualcosa, in effetti, di fluido e d’incantatorio, nelle trasparenze di struggente bellezza, nelle improvvise melodie arcane che si alternano a un’esaltazione ora ctonia, ora dionisiaca.
È giusto, in tale contesto, che a un pianista dalle notevoli doti tecniche ed espressive come Stephen Gosling venga concesso, per quanto il programma non lo compensi con un momento di pausa, di esibire non solo le sue capacità ma pure le indubbie affinità che egli da lungo tempo esibisce per l’estetica di Zorn (il quale, peraltro, prima di essere sassofonista ha studiato il pianoforte e l’organo). I cinque brevi pezzi raccolti sotto il titolo Encomia (“Speculum”, “Penumbra”, “Stretta”, “Occultation”, “Arborescence”) sono di corta durata ma richiedono all’esecutore non piccoli sforzi di virtuosismo nell’esplorazione minuziosa di ogni possibile risorsa fonica dello strumento, esterna ed interna. Ancora una volta, a esplosioni di energia nervosa si alternano lunari bagliori e momenti di intima, raccolta bellezza timbrica e melodica.
Per Barbara Hannigan il compositore ha pure scritto in tempi recenti (2021) un lavoro di delicata filigrana, eppure animato da una tangibile tensione interiore: Split the Lark, una raccolta di canti apparentemente e ingannevolmente fragili, si basa su poesie di Emily Dickinson e frammenti ritrovati dopo la sua morte, appunti sciolti, annotazioni. Zorn, autore assai attento alle dimensioni timbriche e al potere espressivo contestuale del “mood”, coglie con fine penetrazione l’inquietudine visionaria che si cela in una scrittura gentile ma significativamente irregolare, intrisa di elementi metafisici e immersa nei concetti del Trascendentalismo americano, spesso scandita dal ritmo del respiro: la voce trasforma in suoni quanto il testo ispira all’autore, poche sono le parole pronunciate in questi lieder umbratili che sembrano procedere sul filo del rasoio e racchiudere segreti che potrebbero sgorgare violentemente da un momento all’altro. Nonostante l’ineffabile delicatezza dell’architettura, non vi è un momento in cui si allenti un oscuro senso di notturna allerta e di squilibrio pronto a manifestarsi, il che è caratteristica dell’opera di Zorn, che trova nei versi di Dickinson una mirabile raison d’être: la volontà mosaica di attraversare sempre il deserto e di non smarrire l’attenzione e la coscienza della tran- sitorietà, la necessità di non arrestarsi e di non accontentarsi, l’impulso irrefrenato di andare “aldilà”, oltre la momentanea e prosaica illusione dell’appagamento.