Through the Grapevine
Through the Grapevine è una coreografia per due danzatori che pone al centro della propria ricerca la complessità della struttura corporea umana – pseudo-simmetrica rispetto all’asse verticale – e delle sue proporzioni.
Con questa produzione, Alexander Vantournhout e Axel Guérin – collaboratori di lunga data e, nei crediti dello spettacolo, rispettivamente coreografo/creatore/interprete e creatore/ interprete – avviano un’esplorazione che unisce un’accurata ricerca formale, di natura squisitamente coreografica, con un approfondimento che è in grado di fare luce sulla connessione tra la forma del corpo umano, la sua capacità di movimento e la relazione con l’altro che da questa origina e deriva.
Si tratta di una coreografia finemente cesellata e costellata di virtuosismi che instaura un rapporto carnale con l’organicità del corpo osservato dalla prospettiva dell’anatomia, delle sue possibilità e dei suoi limiti. Così si assiste a una danza che, atleticamente, evolve approfondendo, anche in chiave ironica, il proprio punto di partenza: lo studio e la mise en jeu del corpo e delle sue proporzioni formali. Non è di certo un caso se, quando mi ha raccontato della genesi dello spettacolo creato a cavallo dei vari lockdown del 2020, Alexander Vantournhout ha fatto subito riferimento all’Uomo Vitruviano di Leonardo da Vinci.
Le proporzioni sono intese dal coreografo, nato nel 1989 e diplomato alla scuola di coreografia PARTS di Bruxelles fondata da Anne Teresa De Keersmaeker, come assi portanti e tuttavia implicite del design corporeo e del suo movimento nello spazio. Questi elementi, strettamente interconnessi tra loro, rappresentano il focus della ricerca e sono rintracciabili nell’insieme delle sue produzioni. Secondo la sua prospettiva il corpo sembra potersi intendere, innanzitutto, come strumento principale per l’accesso al mondo e alla sua comprensione, ma anche come mezzo originario capace di instaurare relazioni con gli altri individui e con l’ambiente. Osservando il percorso tracciato dalle creazioni di Vantournhout fino ad oggi, una decina di proposte prodotte attraverso la sua compagnia not standing, si nota come la sua si possa descrivere a tutti gli effetti come una danza che si concentra in maniera chiara sul corpo, sulle sue possibilità, capacità e funzioni.
Nella sua prima produzione, l’assolo autobiografico Aneckxander (2015) creato insieme a Bauke Lievens, il corpo del coreografo-danzatore veniva esplorato in relazione a una selezione di oggetti che – grazie alle loro forme e dimensioni, e integrandosi al corpo stesso come le scarpe fanno, per esempio, quando vengono indossate ai piedi – permettono di estendere il movimento, di modificarlo e di aumentare o ridurre, con effetti tragici, grotteschi o comici a seconda dei casi, le possibilità di movimento stesso. Se le proporzioni sono l’oggetto della ricerca di Through the Grapevine, analogamente, le possibilità di movimento che nascono da un gesto sociale quale è la stretta di mano sono il motore di Snakearms (2021). Queste sono due ricerche coreografiche di Vantournhout “attigue”, tematicamente e cronologicamente, e si concentrano sugli esiti di indagini che nascono da dinamiche anatomiche. Più di recente, invece, la direzione intrapresa dal coreografo sembra orientata allo studio del concetto di impronta: il focus non è più su qualcosa che è parte integrante del corpo stesso, ma sull’effetto della sua presenza e del suo essere in uno stato di movimento. In Contre-jour (2021), infatti, la ricerca dà adito a una dimensione più contemplativa, dove la traccia è quella lasciata da cinque danzatori su un tappeto di sabbia che ricopre la scena e che viene “tracciata” dai movimenti della coreografia.
La particolarità di Through the Grapevine risiede nella scelta di considerare il corpo sia come oggetto di studio – con le sue infinite, misteriose geometrie – sia come soggetto, capace di osservare se stesso e di misurarsi nella relazione con l’altro. Per il coreografo non si è trattato di focalizzarsi su di sé e sul proprio corpo; non si tratta di un approccio meramente autobiografico. Al contrario, viene messa alla prova la struttura fisica in un virtuosismo di coppia che sa stemperare con sincera ironia il gioco delle somiglianze e i suoi effetti. In scena non troviamo né l’applicazione di una regola né la ricerca di ideali: il corpo non è eletto a misura assoluta, ma è trattato come una materia organica disponibile, flessibile e sempre contingente. In questo senso, la presenza dell’altro è ciò che continuamente impedisce a una misura, di una qualsiasi delle sezioni del corpo, di darsi come assoluto e come parametro ideale e definitivo. Il corpo qui è trattato, attraverso la scrittura coreografica, come un’architettura modulare, un sistema di movimento che svela ciò che va oltre la forma. Il corpo, infine, non si propone come una struttura anatomica portante dalla quale l’umanità si lascia semplicemente avvolgere o rappresentare, ma a partire dalla quale essa si mostra e si dispiega.
La danza, come il corpo, è un campo ludico, di sperimentazione e ricerca. Nella coreografia, i due danzatori in scena scivolano in un gioco infinito e vertiginoso. La coreografia, scrittura-del-corpo, prende corpo, letteralmente, nella vertigine della dischiusura del mistero delle geometrie iscritte nella struttura umana, e nell’interdipendenza quasi sacra delle relazioni che ogni parte intrattiene con l’insieme. Le forme che i corpi scolpiscono nello spazio servono allora a svelare ciò che a prima vista non appare: i due danzatori hanno una presenza a tutti gli effetti somigliante, eppure basta un centimetro in meno nella lunghezza di un braccio per non far tornare i conti. Le regole del gioco della somiglianza e della differenza sono oggetto d’indagine e motore della danza. Esse mettono alla prova il corpo, lo modellano e, soprattutto, lo rivelano da un punto di vista sorprendente. Quintessenza del lavoro, al pari di un precipitato nel quale è possibile leggere “ciò che rimane” di una ricerca che nasce formale, è la relazione e tutto quello che la compresenza di due corpi maschili può raccontare a chi osserva.
Alexander Vantournhout e Axel Guérin sembrano essere assorbiti nel vortice dei segreti che ogni corpo nasconde, ogni loro movimento apre uno scenario potenzialmente nuovo, incalzando così la drammaturgia creata insieme al dramaturg Rudi Laermans e la composizione musicale di Andrea Belfi. Così presentato e vissuto, il corpo, di per sé individuale, effettua un passaggio che si potrebbe quasi definire “di stato”: da unità di misura di un mondo singolare esso diventa lente di osservazione e chiave d’accesso all’ambiente circostante e all’altro. Si può forse immaginare che nella ricerca di somiglianze e nell’osservazione delle proporzioni Vantournhout ci stia mostrando come, proprio nella struttura organica di ogni corpo sia possibile dare pace e accogliere ogni diversità.