Sans tambour

Und meine Seele spannte Weit ihre Flügel aus, Flog durch die stillen Lande, Als flöge sie nach Haus.

 

La mia anima spiegò ampie le ali, volò per le lande silenziose come se volasse verso casa.

 

da Mondnacht (Notte di luna),
versi di Joseph Freiherr von Eichendorff

da Liederkreis op. 39

di Robert Shumann

Sembra un dettaglio solo tecnico ma non lo è: la raccolta di Lieder op. 39 del compositore tedesco Robert Schumann (1810-1856) è definita dal suo stesso autore “Kreis” e non “Zyklus”. In italiano esiste solo la parola “ciclo” ma in tedesco tra le due parole c’è una sottile differenza. Il musicologo Walter Wiora la spiega così: un “Zyklus” di canzoni è fatto da tante parti che, in ordine cronologico, raccontano una storia, delineando un prima o un dopo, seguendo un filo conduttore comprensibile e condiviso con l’ascoltatore. In un “Kreis” invece i confini sono più labili: non c’è un prima e non c’è un dopo, ci sono tanti stati d’animo, tanti frammenti visivi e poetici che tutti insieme formano un mondo interiore. Se un Zyklus accompagna per mano l’ascoltatore, un Kreis lo invita a perdersi e a cercar- si da solo la propria strada.

E cercare una propria strada in un mondo ridotto a macerie è proprio quello che fanno gli attori, cantanti e musicisti in scena in Sans tambour del regista francese Samuel Achache. Il lavoro di Achache da tempo ruota intorno ai meccanismi che legano musica e teatro, canto e recitazione. Con la sua compagnia La Sourde ha fondato un’orchestra che unisce musicisti che vengono dalle esperienze più disparate: musica antica, jazz e improvvisazione. «E non si tratta di costruire un’orchestra specializzata», spiega il regista, «ma un’orchestra la cui specialità sono le persone che la compongono». La domanda che sembrano farsi gli spettacoli di Achache, da Le Crocodile trompeur/Didon et Énée a questo Sans tambour è “Come guardare la musica? Come ascoltare il teatro?”

Quando entriamo in teatro vediamo una casa. Un uomo in cima a una scala ha appena finito di costruirla: sta sistemando l’ultima pietra. A un certo punto crolla tutto: rimane in piedi solo un muro maestro, quello su cui poggia la scala. L’uomo è lì sopra che guarda il suo mondo andare in pezzi.

In molte lingue la parola “casa” e la parola “patria”, “luogo in cui si è nati” coincidono. Le macerie di una casa sono i frammenti della vita e della storia delle persone che ci vivevano. Le immagini che vediamo oggi dei bombardamenti in Ucraina sono antiche come la storia: gente che, prima di fuggire e ritrovare la propria via nel mondo, si attarda a raccogliere gli ultimi lacerti della propria storia passata. La ricerca di una casa perduta, di una patria lontana, di un’identità andata in frantumi è uno dei temi, quintessenza del romanticismo tedesco, che sono alla base delle liriche di von Eichendorff musicate da Schumann.
Tra le macerie della casa c’è anche un pianoforte ma è andato distrutto, non suona più. L’uomo che ha visto il suo mondo crollare ha bisogno di aiuto per raccogliere i frammenti della sua storia, per tornare a suonare e cantare il suo “Kreis” di canzoni. Attraverso i Lieder di Schumann qui si opera una ricostruzione: c’è la coscienza in tutti gli artisti in scena che non potranno mai ricostruire la casa com’era prima ma possono ricucirne insieme la memoria, con amore e profonda pietà e con l’idea che dopo la distruzione non c’è mai la fine ma sempre una trasformazione. La scelta di parlare di ricostruzione partendo dai Lieder di Schumann è una scelta poetica ed efficace anche per una ragione di fondo, direi anche sociale. Il Lied accompagnato dal pianoforte, oltre che la musica romantica per eccellenza, è anche la musica dell’intimità domestica, del focolare. In ogni casa in cui c’era un pianoforte si poteva cantare. E quando il pianoforte non c’è più, come in questo caso, la musica può essere evocata lo stesso con quello che c’è.

 

Sans tambour è soprattutto la ricostruzione di uno spazio mentale, di uno spazio della memoria attraverso la musica e la recitazione e i Lieder di Schumann, nella loro frammentarietà poetica di “Kreis”, più che un filo da seguire offrono, sia agli artisti in scena sia al pubblico in sala, una materia spirituale con cui cominciare una paziente opera di trasformazione di quello che era e che non potrà essere mai più.

Daniele Cassandro