L’appuntamento
ossia la storia di un cazzo ebreo
«Ma persino adesso mi irrita come qualsiasi cosa, sempre, sia progettata attorno
al cosiddetto corpo umano, il corpo dotato di cazzo, mettendo metà della popolazione a rischio di morte a causa degli oggetti quotidiani. E sono sicura che vale per tutto, dagli spazzolini agli ascensori, dalle borse dell’acqua calda ai pianoforti, fino alle tavolette del water». Siamo a Londra, nell’ovattato studio di uno psicanalista, il dottor Seligman. A parlare è una giovane paziente tedesca. Parlare in inglese, e non nella sua lingua madre, le toglie i freni inibitori, la aiuta a spogliarsi di ogni sovrastruttura culturale, di ogni convenzione che lei, spesso con autoironia crudele, si strappa di dosso come strati di carne viva. La giovane tedesca parla, parla ininterrottamente: il suo è un monologo e come nella Voix Humaine di Cocteau ci chiediamo se dall’altra parte del telefono ci sia effettivamente qualcuno, così qui ci chiediamo se l’analista la stia ascoltando. Il dottor Seligman in effetti è con lei nella stanza ma non la interrompe mai; è una presenza appena percepita, come gli adulti invisibili nelle strisce dei Peanuts.
Trarre uno spettacolo teatrale da quel lungo monologo che è Un cazzo ebreo di Katharina Volckmer (La nave di Teseo 2021, traduzione di Chiara Spaziani), è una sfida notevole. Il testo che Volckmer, nata in Germania nel 1987, ha scritto e pubblicato in inglese è torrenziale, provocatorio, a tratti insopportabile ma anche atrocemente divertente. Sullo scrivere in inglese anziché nella propria lingua, Volckmer ha semplicemente detto: «Mi ha permesso di prendermi più libertà. Anche Freud se doveva dire qualcosa di sconveniente usava il francese». È un testo lucido e delirante allo stesso tempo, che passa dalla confessione di fantasie sessuali legate a Hitler e al nazismo, alla descrizione di incontri di sesso occasionale nei bagni pubblici, dalla deplorazione della pessima cucina tedesca all’impossibilità di sentirsi a proprio agio in un corpo di donna. Un cazzo ebreo è un monologo sull’identità tutt’altro che consolatorio: la voce narrante non sa dove sta andando, non segue un arco che dall’autocoscienza la porterà a un lieto fine, a un dipanamento del suo groviglio. Sa solo che deve continuare a frantumare, a fare a pezzi sempre più piccoli la propria identità di femmina e di tedesca. Sia Volckmer che il suo personaggio hanno una sola priorità: rompere il silenzio. E il silenzio dell’analista è il muro contro cui testardamente, dolorosamente, la protagonista continua a sbattere la testa.
Quella che i tedeschi chiamano Vergangenheitsbewältigung (“superamento del passato”) si è trasformata in un vuoto plumbeo: il passato nazista è stato semplicemente rimosso in nome di un antirazzismo untuoso e di facciata che smussa o nega qualunque differenza: «trenta bambini tedeschi e neanche un ebreo in lontananza», ricorda la paziente, «e noi cantavamo in ebraico per assicurarci di restare de-nazificati e profondamente riguardosi. Ma non siamo mai stati in lutto, semmai ci comportavamo assecondando una nuova versione di noi stessi – istericamente non razzisti in qualunque circostanza, e pronti a negare qualsiasi differenza. (…) Eppure non abbiamo mai restituito agli ebrei lo status di esseri umani né abbiamo permesso che interferissero con la nostra interpretazione della storia, fino ad arrivare a quel triste cumulo di pietre che è stato messo a Berlino a commemorare l’Olocausto».
La messa in discussione della propria appartenenza alla cultura tedesca diventa anche una radicale messa in discussione del proprio essere nata femmina: «una volta imparato a pensare con la mia testa, ho cominciato ad andare nei bagni dei maschi», spiega all’analista. E il cesso pubblico diventa per lei, in un comico ribaltamento delle polemiche statunitensi sull’utilizzo dei bagni femminili per le persone trans, un luogo di scoperta di sé.
Mentre scriviamo il regista Fabio Cherstich sta creando lo spettacolo con la collaborazione della stessa Katharina Volckmer. «Immagino la donna e il dottor Seligman all’interno di uno spazio mentale» spiega nelle sue note di regia: «non lo studio di un medico ma un dispositivo visivo in cui attraverso l’utilizzo di lenti traslucide, vetri opalescenti, filtri fotografici, il corpo della protagonista e la sua immagine possano apparire al pubblico in una forma mutevole e continuamente trasformabile, fluida e misteriosa». Cherstich quindi, alla dimensione della parola aggiungerà quella visiva, per rendere plastica l’esigenza della protagonista di trasformarsi, di diventare altro da sé, di lasciarsi alle spalle quella che era. Ha in mente l’arte sporca, umorale e confessionale dell’artista britannica Tracey Emin, il cui flusso di coscienza visivo è costellato di Kleenex appallottolati, di letti disfatti, di preservativi usati, di scarabocchi fatti soprappensiero. O le performance medico-rituali dell’artista francese ORLAN, che ha fatto della chirurgia estetica estrema la sua poetica. Cherstich non vuole solo farci sentire la voce della protagonista ma vuole anche farci vedere cosa si sta affastellando e formando nella sua immaginazione: ci chiede di diventare testimoni di un processo di distruzione di sé che è anche un inno alla complessità e alla fluidità di quello che siamo, di quello che potremmo osare essere e di quello che saremo: «Facciamoci oro, dottor Seligman. Cambiamo forma nei secoli, ma senza scomparire».