Italia-Brasile 3 a 2
Il ritorno
È il 5 luglio del 1982 a Barcellona, da poco sono passate le 17 e il caldo avvolge la città, fin sopra nella parte alta dove lo Stadio Sarrià conclude la salita dell’Avinguda Diagonal, percorsa da oltre 44.000 spettatori di uno degli eventi più attesi del Mundial di Spagna: l’ultima partita del “gironcino” tra l’Italia di Enzo Bearzot, sorpresa del torneo, e la favoritissima Seleção brasiliana, ricca di un talento inarrivabile e a cui basta un pareggio per passare alla semifinale. A causa della nazionalità dell’arbitro, l’israeliano Abraham Klein, la partita non viene trasmessa nei paesi arabi. Ma viene trasmessa, di certo, in ogni altra televisione in giro per il mondo, nei cortili rionali, nei palazzi signorili, nei salotti improvvisati delle case povere, senza dubbio in una casa del quartiere Malaspina Palagonia di Palermo, là dove il 5 luglio del 1982, sempre poco dopo le 17, una famiglia italiana si dispone seguendo il proprio rito, la propria liturgia per assistere alla partita. Ognuno prenderà lo stesso posto di sempre, seguendo le stesse abitudini delle fortunate partite precedenti. Se non sarà così, il destino seguirà inesorabile la strada della sconfitta.
Se il primo dei due eventi è andato in onda in diretta mondiale, il secondo – da esso derivato – si è manifestato in una casa palermitana, ma non fu meno visibile, perché ciò che avvenne in quella casa fu una sequenza di scene universali, accadute in ognuno dei salotti, cortili, palazzi collegati per la partita; dunque un fatto pubblico e uno privato, un fatto pubblico e milioni di fatti privati, assieme compongono l’affresco della storia popolare italiana. In quella casa, lontana precisamente 1.025 km dallo stadio, come una spada che infilza a metà il Mediterraneo, accanto a suo padre e allo zio Peppe e agli altri componenti della famiglia, c’è il piccolo Davide, 8 anni, inconsapevole allora di trovarsi di fronte a un evento storico, anzi due: da un lato una delle partite più esemplari per comprendere la diffusione del calcio nell’intero pianeta, dall’altro l’esercizio degli uomini che gli saranno da modello per la vita, le loro emozioni scatenate dall’osservazione di un movimento che avviene nello schermo, quindi non presente eppure così presente, i loro esorcismi e le loro pratiche di carattere religioso, quasi magico. Passeranno 20 anni prima che quel piccolo Davide Enia decida di esprimere tutta la forza evocativa di quel momento in una forma di racconto orale, fino al debutto dello spettacolo che dalla partita prende il nome: Italia Brasile 3 a 2.
Oggi di anni ne sono passati altri 20, lo spettacolo ha fatto 800 repliche in tutti i teatri italiani, a riportarlo in scena – con l’accezione “il ritorno” a identificare la continuità con “l’andata”, proprio come una partita di calcio – è la sensazione che il già detto abbia sempre nuove forme da rappresentare, nuovi ascolti con cui porsi in dialogo: se allora l’intenzione di Davide Enia fu quella di rimettersi in contatto con il bambino che era stato, con tutto il carico di emozioni rimaste impigliate nel passato e che il racconto avrebbe saputo far riemergere, ora il processo si ripete di nuovo perché forse in quella storia è contenuto il tempo nell’atto della trasformazione, dell’individuo e contemporaneamente della società che esso rappresenta, finché il rinnovarsi dell’esperienza non porti a materializzare una sorta di macchina sensibile del tempo, un congegno delicatissimo di relazione con le età della propria vita. In tal modo si rivela una dinamica quanto mai affascinante, ossia che crescendo, gli eventi storicizzati, che dunque sono raccontati seguendo una sequenza stabile di fatti, mutano secondo la nostra trasformazione, quindi non è vero che la storia sia immobilizzata e intoccabile, ma si modifica secondo il progressivo grado di maturazione che noi raggiungiamo attraverso il tempo. Pertanto Italia-Brasile dell’‘82, che ha un risultato e una precisa ricorrenza di fatti nei 90 minuti, nella percezione dei singoli protagonisti è cambiata e questo non riguarda esclusivamente il giovane o adulto Davide, ma ogni generazione che ne ha fatto esperienza, in ogni angolo del tifo calcistico. Si innesca allora quel gioco, anch’esso magico, del “dove eravamo” quando un determinato fatto ha sconvolto, in positivo o in negativo, l’ordine della nostra esistenza; lo sport – il calcio tra tanti è il più diffuso – non è altro che uno dei più espliciti veicoli di connessione sociale, che quindi fa emergere naturalmente il profondo carattere identitario di una nazione. Abbandonando dunque ogni riguardo per lo snobismo che ne minimizza il valore, non è iperbolico definire il tifo per il calcio, così radicato a partire dal proprio contesto più intimo fino ad allargarsi alla dimensione pubblica, il collante sociale che, in questi tempi di estremo conflitto, di ferite aperte in una società prevaricatrice e repressiva, umanamente dissestata, in cui sono negati i diritti fondamentali dell’uomo, permette di esercitare quel senso di appartenenza, di orgoglio per il quale stringersi, abbracciarsi, urlare, ricreando così, in un tessuto sociale spaccato che ha perso la carnalità, l’esperienza rivoluzionaria della felicità.
Questo processo, tuttavia, non avrebbe uguale forza se non fosse sostenuto dalla convinzione che la gioia possa rappresentare quell’enorme scarica di adrenalina liberatoria capace di provocare una catarsi, attraverso però l’arma del comico e non del dramma o della tragedia; la narrazione, il cunto di Enia, cullato dalla concordanza musicale con le note di Giulio Barocchieri e Fabio Finocchio, rivela aspetti comici che superano ogni possibile invecchiamento per la purezza del contesto in cui accadono, determinando quel miracolo di riconoscibilità che fa dire, ad ognuno, di aver vissuto per un tempo ed uno spazio altrove nella stessa identica vicenda. A corroborare il viaggio a ritroso è l’occorrenza dell’inevitabile: molti dei protagonisti, da Paolo Rossi a Bearzot, da Waldir Peres a Socrates fino allo zio Peppe, ora sono morti, pertanto la relazione con il passato assume un carattere di evocazione ancora più forte, attraverso cui il racconto sprofonda nella dimensione epica: tra noi e Socrates o Bearzot, oggi, è la medesima distanza che può esserci con Ettore, o Achille, protagonisti omerici dell’epica classica che rivivono nel gesto estetico, nei caratteri dirompenti, nella ricorrenza degli epiteti, nel prato verde di un campo di calcio in luogo di quello di battaglia, là dove biografie disunite trovano una coesione e le appartenenze locali si fanno universali, dove il grandangolo della storia apre il varco temporale attraverso cui da uno spiazzo di periferia povera dove vola un pallone calciato senza scarpe si raggiunge un campionato del mondo, dall’infanzia si conquista l’età adulta, da una televisione sistemata nel salotto di una piccola casa in un quartiere di Palermo si compare davanti agli occhi di ogni spettatore di questo spettacolo, come fosse, la partita in casa propria, il vero evento in mondovisione.