Il gabbiano
Il gabbiano va in scena per la prima volta a San Pietroburgo il 17 ottobre del 1896. È un disastro. Nella prefazione del libro Anton Čechov. Vita attraverso le lettere (Einaudi), Natalia Ginzburg scrive: «La gente rideva nei momenti più drammatici. Ogni frase era accolta con fischi e con urla assordanti. Gli attori recitavano atterriti (l’ostilità del pubblico aveva a tal punto intimidito l’attrice Vera Komissarževskaja, nel ruolo di Nina, da farle perdere la voce, ndr), ciascuno dimenticava le proprie battute, ciascuno era immemore della propria parte.
Alla fine del secondo atto Čechov se ne andò. Mangiò qualcosa in un ristorante, solo. Poi si mise a camminare per le strade piene di neve. (…) L’indomani prese un treno per Mosca». Tre giorni dopo, vi fu una seconda rappresentazione, e andò bene. Un «successo colossale».
Ma a San Pietroburgo Čechov non tornò. «Quella sera, con le urla e le risate e i fischi, non l’aveva cancellata dalla memoria».
Due anni dopo, un vecchio amico di Čechov, Nemirovič-Dančenko, professore d’arte drammatica, gli scrisse una lettera. Con il regista e attore Stanislavskij aveva fondato un teatro, chiamato “Teatro d’arte popolare” che poco dopo avrebbe cambiato il nome in “Teatro d’Arte di Mosca”. Intendeva mettere in scena Il gabbiano. Čechov dapprima rifiutò, il ricordo delle risate e dei fischi «ancora lo lacerava», ma alla fine acconsentì. Il 17 gennaio del 1989 lo spettacolo debutta al Teatro dell’Arte. Ed è un trionfo.
Čechov riesce a essere «contemporaneo» come pochi altri scrittori di teatro, per i temi affrontati nelle sue «commedie» e per quel senso di inquietudine, di inadeguatezza – di «fuori sincrono», dissonante rispetto al proprio tempo – che i suoi personaggi ci trasmettono. Oggi più che mai. Dice Leonardo Lidi, attore e regista che firma adattamento e regia della nuova produzione del Teatro Stabile dell’Umbria con ERT / Teatro Nazionale e il Teatro Stabile di Torino – Teatro Nazionale, in collaborazione col Festival dei Due Mondi: «Il gabbiano è il testo che mi ha veramente fatto innamorare del teatro, il mio preferito di sempre. È vero, lo dico di tante opere, ma in questo lavoro riesco a identificare tutto quello che del teatro mi affascina. Il primissimo approccio è stato con il personaggio di Konstantìn che cerca la rivoluzione nel classicismo: da giovane studente di recitazione è questo aspetto che più mi ha appassionato. Oggi quasi rido di quel me di allora, col tempo l’interesse si è spostato sui vari personaggi che abitano il testo e sulle loro dinamiche. Penso al tema del teatro presente in Konstantìn e in sua madre Irina Arkadina, o a quello della scrittura teatrale in Trigorin. Čechov parla a tutti i tempi e le età della vita, e poco importa che la prima rappresentazione del Gabbiano sia stata un clamoroso fallimento: vale per molti capolavori del teatro. I veri rivoluzionari i teatri li hanno svuotati, vedi Ibsen coi suoi Spettri o D’Annunzio con La città morta». Entrambi classici con cui Lidi, vincitore nel 2017 del bando per registi under 30 della Biennale College – Teatro diretto da Antonio Latella, si è coraggiosamente confrontato.
L’amore non corrisposto è il motore dell’opera. Scrive Čechov a proposito del Gabbiano all’amico Suvorin, il 21 ottobre 1895: «È una commedia, ci sono tre parti femminili, sei maschili, quattro atti, un paesaggio (veduta lago); molti discorsi sulla letteratura, poca azione, tonnellate d’amore». Konstantìn desidera disperatamente l’amore di sua madre, l’attrice Irina Arkadina, ma non lo riceve; Nina si innamora del romanziere Trigorin, l’amante di Arkadina, con cui vivrà per un periodo a Mosca, prima che lui l’abbandoni per tornare dalla ex; la quale vuole l’amore di Trigorin ma deve accontentarsi del dominio su di lui: egli non ama nessuno. Ha ragione Lidi: «Potremmo finire con la prima scena di Maša e Medvedenko: Perché va sempre vestita di nero? È il lutto per la mia vita. Sono infelice. Ecco tutto qui, come la canzone di Jannacci che mi ha accompagnato nello studio… In fin dei conti chi ama è sempre sconfitto e la sconfitta dell’amore ha una sincerità tale che unisce la gran parte di noi». Ma Il gabbiano è anche un’opera metateatrale, un’opera che riflette sul bisogno di un profondo rinnovamento della scrittura drammatica e della concezione scenica. «Del teatro non si può fare a meno. Sono necessarie nuove forme» dicono nel primo atto Konstantìn e suo zio Sòrin, nella cui villa si svolge l’azione. «Non amo parlare del teatro nel teatro, per me è importante far passare sempre il messaggio che dobbiamo fare palpitare il teatro nel nostro presente – sottolinea Lidi –, essere consapevoli che lavoriamo per chi c’è, senza nasconderci dietro il classico, senza temere di andare incontro alle critiche. Ho optato per una riscrittura non invadente – prosegue –, una riscrittura che renda tutto plausibile rispetto a noi, cercando di mantenere intatto quello che risuona ancora nell’oggi: ci sono autori che hanno bisogno di una riscrittura per risuonare nel presente. Čechov fa eccezione: ride e piange con noi, non ride mai di noi. Empatizza. Si commuove delle tenerezze che ci fanno penare. Mi dice che alla fine non c’è niente da vincere e che nessuna situazione si può mai gestire fino in fondo, che la mania di controllo che tanto ci tranquillizza è perfettamente inutile. La sua grandezza sta nel tenerci compagnia con le vite dei personaggi che abitano i suoi scritti».
Per Tolstoj «Čechov non può essere paragonato come artista a nessuno degli altri scrittori russi, Turgenev, Dostoevskij o io stesso. Come tutti gli impressionisti, egli possiede una sua forma. Lo vediamo lanciare inavvertitamente i colori che ha a portata di mano, e pensiamo che quei tratti di pittura non abbiano nulla a che fare tra loro. Ma appena si fa un passo indietro e si guarda da lontano, l’impressione è straordinaria: ci troviamo di fronte a un quadro abbagliante, irresistibile». Tolstoj tocca un punto cruciale dell’estetica di Čechov: il suo rapporto con i lettori. Scrittori come Turgenev, Goncarov e persino, fino a un certo punto, lo stesso Tolstoj, si rivolgono a un lettore passivo. Čechov, al contrario, non intende spiegare nulla, solo suggerire. Egli esige una costante collaborazione del lettore, l’obiettivo da lui stesso dichiarato è guidare il lettore a pensare: «Quando scrivo, mi concentro sul lettore, e conto che saprà aggiungere lui stesso gli elementi soggettivi che mancano alla mia storia (…) E perché dovremmo spiegare? Basta bussare, è tutto; allora il lettore si interessa e ricomincia a riflettere».
Conferma Lidi: «Non dobbiamo mai dimenticare la dinamica che Čechov intesse con lo spettatore, per un regista questo è fondamentale. Gli spettatori di Čechov videro nel suo teatro una recitazione “nuova” rispetto a quella cui erano abituati, un cast giovane capace di sorprendere il pubblico: quegli attori sul palco parlavano come loro. Questo deve far riflettere non tanto su un aspetto cinematografico del testo ma su cosa vuol dire essere spettatori della propria vita, attivi o passivi».