Demi-Véronique
Etimologicamente, nella letteratura mimetica del football, la veronica può indicare la smarcatura usata da Maradona ai quarti di finale del Campionato del Mondo del 1986 a Città del Messico quando in Argentina-Inghilterra conquista la palla a centrocampo, si libera degli avversari, e dopo una lunga corsa mette a segno uno dei gol più belli della storia del calcio, intendendosi per veronica il dribbling che un giocatore effettua per spiazzare, sbilanciare e superare uno o più componenti dell’altra squadra, un atto creativo, tecnico ed emozionante che può aspirare alla leggenda.
Morfologicamente, stando alle prospettive della tauromachia, la veronica può riferirsi alla figura tipica della corrida eseguita dal torero con la cappa, tenendo il panno vicino al corpo, posto di profilo rispetto al toro che carica, mentre all’ultimo momento il matador lo scarta, facendolo passare da destra a sinistra.
Semanticamente, nel lessico del culto, nell’iconografia spirituale, la veronica viene definita così con stretto richiamo all’atteggiarsi di Santa Veronica che, secondo la tradizione cristiana, si sofferma a togliere il sudore di Cristo con un manto di lino (il cosiddetto “velo della Veronica”) nell’odissea della sua ascesa al Calvario.
Letterariamente, Veronica è un personaggio del racconto Il vaso d’oro di Hoffmann, è un personaggio del racconto di Robert Musil La tentazione della silenziosa Veronika, è la protagonista del romanzo di Paulo Coelho Veronika decide di morire. Cinematograficamente, è un personaggio del film Veronika Voss di Rainer Werner Fassbinder.
Musicalmente, è la figura di una canzone di Fo-Ciotti-Jannacci cantata da Jannacci, è una canzone di Edoardo Bennato, di Adriano Celentano, di Elvis Costello, dei Baustelle, è in una canzone di Alice Cooper, e in una canzone di Bob Dylan.
Demi-Véronique, per giungere al nostro spettacolo non correntemente classificato, è il fluxus di un rapido trasformarsi, è l’oscillazione tra un’umanità senza limiti e una dolce ironia, è un alternarsi di cupa malinconia e ferocia da panico, è il vibrare di un’opera non teatrale che viene trasposta in coreografia di corpi e note, è la creazione collettiva de la vie brève ispirata alla Quinta Sinfonia di Gustav Mahler e plasmata da Jeanne Candel, Caroline Darchen e Lionel Dray. Ad affascinare questi artefici di oggi è stato il senso fisico della Quinta di Mahler. Come se quella sinfonia producesse un tracciato palpabile, una performance epica, una drammaturgia segreta pronta a farsi strada nella nostra pelle oltre che nel nostro cuore. Come se negli angoli più profondi, radicali e viscerali del nostro sentire scoppiasse una mezza veronica, un atto inconsulto da corrida, uno scalciamento da finale mondiale di campionato, una pietà ardita da via crucis profana, e arrivassimo a percepire l’imminenza della carica d’un toro, l’oblio di un Aleph di Jorge Luis Borges, una pausa dopo la quale tutto può ricominciare. Come se si completasse il ciclo di una metamorfosi, l’effetto di un bacio fumante, di orecchie capriccio- se, di una tragica palpitazione, a rompere la linea retta del nostro sopravvi- vere quotidiano.
L’opera, la partitura, il grafico, la multidisciplinarietà, il sismografo scenico, l’entità di questo ascolto materico della Quinta di Mahler è, potrei dire, forse erroneamente semplificando, teatrale. Ma dentro questo riorganizzare l’arte ci sono intuizioni degli autori-registi che cercano, senza certezze, le intuizioni dei destinatari assuntori. È in questa terra di nessuno, di sensibilità non canoniche, che si determina il destino dell’arte del tempo che ancora non c’è, un’arte della non ripetizione, della non rispondenza, della non eccellenza clonata. Importante è capire le associazioni di stimolo, fare deduzioni dal percorso orientativo, dal terreno di gioco dei tre nostri artisti rigeneratori delle contraddizioni ostinate ma composite della sinfonia. Oltre a Mahler, l’influenza delle maggiori reminiscenze ha qui a che fare col set di una camera da letto finita bruciata, con relativo portfolio di immagini d’una casa andata a fuoco, un paesaggio interno di fuliggine e cenere immortalato dall’inquilina poi fotografa Karin Borghouts. Straordinario e collimante è stato il rapporto fra quelle perturbazioni d’una memoria d’un incendio e gli sbalzi e le pressioni di movimento della Quinta. Il risultato è stato Demi-Véronique che, ad eccezione del prologo, è spettacolo senza parlare, con messa in scena della musica, degli squilibri, di frammenti tra loro separati, con figure che non saranno mai personaggi e che invece si commutano, lasciando da parte il tema del significato. Ecco, diciamo che s’è preferito e s’è ottenuto di creare alla lettera un altro mondo.
Partiamo dal presupposto che Mahler ha una posizione specifica nella storia della musica occidentale, tra la tradizione sinfonica del XIX secolo e la scissione della Seconda Scuola Viennese, una musica che si diceva fosse perseguitata dalla propria morte, anche però una musica che lavora e ricompone sonorità esistenti, sia coltivate che popolari. Qui i creatori a sei mani di questo materiale di riattraversamento hanno inscenato nei tracciati musicali tutta una serie di loro fantasmi, di proiezioni di ciò che li perseguita e accompagna a livello di ricordi, storie. Hanno cioè lasciato che si mescolassero conscio e inconscio, iniezioni di libere citazioni, cesure senza limiti. E a questo punto il loro Mahler non è più un compositore lontano ma un autore caoticamente a noi prossimo. E la constatazione aiuta ad accreditare la sezione apposita che Spoleto Festival 2022 conia per la cultura d’una musica da fare più che da eseguire, da performare e non soltanto da suonare, da rendere visuale e coreografica più che concertistica.
Poi, al di là dell’importante altro modulare, trasfondere e spettacolarizzare la musica, c’è un’inedita e decisiva cultura del “come” trarne un diverso linguaggio, del “come” cantierizzare un’ulteriore disciplina facendo leva sulle ordinarie fondamenta di scrittura ed esecuzione sonora. Qui è accaduto che Mahler stesso abbia fornito assi dinamici e linee per il movimento, l’azione. E ora s’è scelto a volte di farsi trasportare dalla musica o, all’incontrario, di ignorarla se non addirittura operare contro. Il materiale del set di Demi-Véronique procede con gli stessi squilibri creativi che hanno ispirato il compositore, ed è un materiale che in modo contemporaneo distrugge, fora, lacera, bussa. Nel primo movimento si riecheggiano i miti giapponesi del pesce distruttivo. La musica viene accolta e con essa si (de)struttura qualcosa. Ci si pone la domanda: chi guida chi? È l’attore che guida l’azione, o è la musica? Posizioni che si spostano, s’alternano. Durante il prologo Lionel Dray esibisce la figura nascosta del leader che è anche alchimista della materia. La materia è il pubblico. Eccola, la posta in gioco dello spettacolo: cosa facciamo con ciò che ci sta accadendo, con ciò che la musica nasconde in noi?