Concerto finale
A partire dalla fine del Settecento l’interesse per l’Oriente, anche in conseguenza dell’ampliamento delle rotte commerciali e del progressivo sviluppo predatorio degli imperi coloniali europei, ha costantemente alimentato l’ispirazione nel campo delle arti figurative, della letteratura e della musica. Sopite ormai le velleità aggressive dell’impero ottomano, avviato verso una lenta e innarrestabile decadenza, il fascino di paesaggi usanze, sonorità e costumi associati ai paesi delle sponde del Mediterraneo o a remoti distretti posti sotto il dominio diretto o indiretto della Sublime Porta si impone come concorrente di altre mete del vagheggiamento esotico per i viaggiatori e gli artisti europei.
Un’alternativa carica di emozioni più forti e inebrianti rispetto a quelle della Spagna e delI’Italia, il cui potenziale di esotismo permane peraltro a lungo inalterato, esercitando la sua influenza su generazioni assai distanti di compositori, da Mendelssohn a Bizet, da Elgar a Szymanowski, da Čaikovskij a Henze. Nel 1813, all’epoca della fulminea composizione dell’Italiana in Algeri, il ventunenne Gioachino Rossini si misura con un libretto buffo di Angelo Anelli, soggetto turchesco già musicato cinque anni prima da Luigi Mosca e ispirato alla lontana al famoso rapimento della milanese Antonietta Frapolli, tornata libera in patria con una ricca dote dopo che i corsari l’avevano ceduta al bey di Algeri per il suo harem. La brillante scrittura dell’ouverture potrà anche riecheggiare i modi d’oriente nel capriccioso canto dell’oboe come negli improvvisi “tutti” orchestrali, modellati sul vivace clangore delle bande ottomane, ma l’invenzione melodica, il ritmo e i crescendo trascinanti sono pura invenzione del Pesarese. Capovolgendo la prospettiva, l’opera alla fine sembra guardare più all’esotismo dell’Italia stessa, dei suoi costumi e delle sue donne intraprendenti, patria sognata dai prigionieri e da Isabella, la cui arguzia oppone lo scilinguagnolo del Pappataci al turbante del Kaimakan e fronteggia il palo dei supplizi con un caffè che profuma più di Venezia e Vienna che di Algeri. Il clima dell’harem e il susseguirsi delle consorti del sultano si fa più rischioso nella vicenda posta a cornice delle fiabe delle Mille e una notte, la celebre raccolta letteraria dalla storia antica e stratificata, tradotta, o meglio adattata, in francese da Antoine Galland a inizio Settecento, già ispiratrice di innumerevoli variazioni e filiazioni in campo letterario, musicale e infine anche cinematografico. L’impresa di Shéhérazade che notte dopo notte salva la propria vita avvincendo nelle spire dei suoi racconti il brutale sultano, aduso a uccidere ogni sposa alla nuova alba, ha suggerito nel 1888 a Nicolai Rimskij-Korsakov l’idea di un poema sinfonico sotto forma di suite in quattro movimenti. Un oriente intessuto di peripezie avventurose, sensuali mollezze ed efferate crudeltà, la cui proverbiale, smagliante orchestrazione non nasconde del tutto le reali radici profondamente russe, tanto quanto le lasciano intendere le danze asturiane del Capriccio Spagnolo o i fastosi riflessi cangianti della coeva ouverture La grande Pasqua russa. I quattro movimenti della suite sinfonica sono collegati dal ripetersi di due motivi principali, che rappresentano il Sultano e Scheherazade, introdotti già nelle prime battute della suite: quello della narratrice Shéhérazade, giustamente celebre e affidato al canto del violino, si ripresenta all’inizio del secondo e nell’intermezzo del terzo movimento, ciascuno ispirato a una diversa favola di pirati e principi, per emergere nel movimento conclusivo della festa a Baghdad, confrontandosi nuovamente con il cipiglio scostante del sultano, cupi bagliori degli ottoni e dei fiati rinforzati dagli archi, ormai destinato a sciogliersi nel finale in un sorriso di resa. Il concerto per violino e orchestra del pianista e compositore turco Fazil Say, sottotitolato le Mille e una notte nell’Harem, condivide con il brano di Rimskij Korsakov la scansione in quattro movimenti e la funzione narrante del violino, qui elevato tuttavia a indiscusso protagonista del brano. Anche per Say il racconto è poco più che un pretesto: nulla ci dice infatti del rischioso stratagemma dilatorio di Shéhérazade e delle sue fiabe, ma preferisce spostare l’attenzione, come indica lo stesso Say, sull’atmosfera lussureggiante e carica di erotismo dell’harem. Commissionato dall’Orchestra Sinfonica di Lucerna, il concerto è stato creato nel 2008 dall’orchestra della città svizzera diretta da John Axelrod, con solista Patricia Kopatchinskaya. Con la medesima originalità e estroversione che caratterizza le sue interpretazioni pianistiche Say asseconda nel concerto un tratto stilistico eclettico peraltro evidente in altre sue composizioni, fondendo con ispirazione vivida e multiforme i modi della musica orientale con le istanze del concerto d’impostazione classica. Al riparo da ogni accusa di appropriazione culturale il compositore turco gioca e rinnova con assoluta libertà le convenzioni dell’esotismo, dall’incontestabile posizione di chi vanta a un tempo pratica e conoscenza profonda della musica d’arte occidentale e radici solide nelle musiche tradizionali del proprio paese, come già indica la presenza in organico del kudüm e del bendir, percussioni ampiamente diffuse in ambito mediorientale. L’apertura del concerto spetta proprio alle percussioni, su cui presto si distende l’ondeggiante, sinuoso tema in minore del violino. L’orchestra raccoglie e trasforma un frammento del tema iniziale dando l’avvio a un’acceso dialogo col solista e le percussioni, la cui funzione dovrebbe essere quella di presentare le varie personalità femminili che abitano l’harem. Dopo una prima breve cadenza, il secondo movimento ci trascina in un susseguirsi di danze che alternano figurazioni e poliritmie orientali a una vigorosa scrittura orchestrale capace di integrare influenze che dal Novecento russo si spingono a Herrmann e Bernstein. Con un ennesimo scarto illusionistico l’incedere frastagliato del concerto, animato dalla libertà rapsodica di una fantasia, sfocia in un dialogo serrato fra solista e percussioni cui segue per contrasto l’abbandono melodico del terzo movimento. Un rapido passaggio di pizzicati introduce il solista che sembra parodiare con un nuovo tema l’empito romantico della scrittura di Rimskij Korsakov, ma il movimento in verità non è altro che una serie di virtuosistiche variazioni su una famosa canzone turca. Segue una nuova cadenza e il quarto movimento riannoda in un vortice caleidoscopio i fili dei diversi temi del concerto, dai quali lentamente riemerge il tamburo turco, cui è affidato un evocativo solo. Sulle pulsazioni delle percussioni si snoda per l’ultima volta il tema del violino e il concerto si spegne in un eco lontana.
Andrea Penna