Concerto inaugurale
La danza è il filo rosso che unisce i brani di autori francesi del primo Novecento eseguiti in questo concerto. Ma a guardare attentamente si scopre anche un altro filo, più sottile e meno evidente, ma forse più affascinante: è l’esotismo o più esattamente quattro diversi modi di esotismo. L’esotismo di Le boeuf sur le toit è l’esotismo senza fronzoli estetizzanti e fantasie oniriche di un musicista sedotto dai motivi brasiliani ascoltati personalmente per le strade di Rio. L’esotismo di Shéhérazade è il sogno di chi non ha mai visto quei paesi e quelle genti lontane ed è quindi li sogna piegandoli alle proprie fantasie e ai propri desideri, facendo rimare esotismo con erotismo. L’esotismo di Gymnopédie si dispiega non nello spazio ma nel tempo, viaggiando indietro nei millenni fino a portarci nell’antica Sparta: anche questo è puro sogno, senza alcuna velleità di ricreare la realtà storica.
Apparentemente la Vienna de La Valse non ha nulla di esotico, ma per Ravel è esotico anche quel mondo vicino nel tempo e nello spazio, ma ormai spazzato via dalla Grande Guerra e diventato in un miraggio come l’oriente di Shéhérazade.
Una nuova generazione di musicisti francesi si afferma negli anni immediatamente successivi alla Grande Guerra. Hanno dalla loro parte Jean Cocteau, che, ancora molto giovane, è già una figura dominante del panorama artistico parigino. È lui a battezzare come “gruppo dei Sei” quel manipolo di compositori e a scriverne il manifesto artistico, Le Coq et l’Arlequin, che rigetta il simbolismo di Debussy e le sue sonorità preziose, vaporose e indeterminate, a cui contrappone il suono secco ed essenziale di Satie e anche il music-hall, il circo, la musica afro-americana. Cocteau collabora attivamente con quei musicisti di cui si è nominato mentore e guida e un momento clamoroso di tale collaborazione è Le boeuf sur le toit, pensato da Darius Milhaud come una cinéma-fantasie destinata ad accompagnare un film muto di Charlot, ma poi trasformato in un ballet-pantomime su consiglio di Cocteau.
Durante la guerra Milhaud era stato segretario dell’ambasciata francese a Rio de Janeiro e Le boeuf sur le toit è la dimostrazione del suo amore per la musica brasiliana, per i suoi ritmi, i suoi colori, la sua vitalità (il samba, il tango, il maxixe) e anche la sua malinconia (il fado). In una quindicina di minuti o poco più sono citati con la massima libertà e senza alcun piano formale prestabilito una trentina di motivi popolari brasiliani, tra cui la canzone O boi no telhado (Il bue sul tetto), che aveva avuto enorme successo nel carnevale di Rio del 1918 ma che non è il motivo principale, quello che torna più e più volte, come si potrebbe essere portati a credere.
Con un effetto straniante, la coreografia ideata da Cocteau per la prima parigina del balletto nel 1920 accompagnava questa musica così vivace con movimenti lentissimi, come un film al rallentatore. Era di Cocteau anche il surreale soggetto, che vede avvicendarsi in uno strano bar gli avventori più disparati (un bookmaker, un nano, un pugile, una donna vestita da uomo, degli uomini vestiti da donna, un poliziotto che viene decapitato dalle pale di un ventilatore ma resuscita…) interpretati non da ballerini ma da artisti del circo.
Il successo fu tale che poco dopo venne effettivamente aperto a Parigi un bar dal nome Le boeuf sur le toit, che negli Anni Venti fu il punto di ritrovo dell’avanguardia artistica parigina.
Il gusto per l’esotismo affiora più volte nell’opera di Maurice Ravel, che può trovare l’esotismo appena oltre i confini della Francia, in Spagna, o in paesi più lontani, come la Grecia e il Madagascar, o ancora in un oriente indefinito, un mondo di fantasia che non si può rinchiudere in confini geografici precisi. Già nel 1898 aveva pensato ad un’opera ispirata alle Mille e una notte e questa idea rinasce in una nuova veste nel 1903, quando un giovane poeta, che aveva scelto lo pseudonimo wagneriano di Tristan Klingsor, gli legge alcune sue liriche. Ravel subito ne mette in musica tre, intitolandole Shéhérazade. Nella prima, Asie, il narratore sogna di fuggire dalla vita reale e prosaica per immergersi in un continente sconfinato e fantastico, dove non esiste la miseria e trionfano la bellezza e il lusso, inestricabilmente connessi al sangue e alla crudeltà. In La flûte enchantée una schiava, chiusa in casa dal suo padrone, sente il suo innamorato suonare il flauto, lontano, di notte: lo spleen degli amanti separati è inseparabile dal sottile e delicato erotismo. Ne L’indifférent un giovane dagli occhi dolci come quelli di una ragazza non accetta l’invito ad entrare e si allontana salutando con un gesto aggraziato: l’esplicita sensualità del testo si riflette nel languore estenuato della musica. L’eleganza sensuale e preziosa della voce solista di queste tre liriche è moltiplicata dalla raffinata e favolosa tavolozza orchestrale di un mago ineguagliabile della strumentazione quale fu Ravel.
Espulso dal Conservatoire di Parigi perché giudicato privo di talento, Erik Satie è costituzionalmente insofferente all’establishment musicale, per vivere suona il piano nei cabaret, predica la semplicità e la povertà della musica in contrasto con quell’epoca di raffinato estetismo, di orchestre sontuose, di nuove e complesse teorie musicali. È già anziano quando Cocteau lo indica ai giovani del “gruppo dei Sei” come antidoto a Claude Debussy, eppure un tempo Debussy e Cocteau erano stati amici e si erano reciprocamente stimati. Ne è una prova inconfutabile la trascrizione orchestrale che Debussy aveva fatto nel 1897 di due delle tre Gymnopédies per pianoforte composte nel 1888 da Satie, invertendone l’ordine, cosicché la terza Gymnopédie divenne la prima nella sua trascrizione.
Il titolo di questi brevi pezzi rimanda alle feste spartane delle gimnopedie, durante le quali giovinetti nudi eseguivano danze rituali ed esercizi ginnici. Simili tra loro – quasi tre varianti dello stesso ritmo di valzer lento e della stessa semplice struttura – le tre Gymnopédies sono eteree, vaporose, minimaliste (molti decenni dopo John Cage vedrà in Satie un precursore della minimal music) e il loro carattere è sereno ma con un sottofondo di nostalgia e di mistero. Successioni di accordi statici, melodie dal sapore arcaico, ritmo lento e strutture ripetitive, tutto tende a raggiungere uno stato contemplativo che escluda le passioni umane e arresti o almeno rallenti al massimo lo scorrere del tempo.
Al momento di accingersi a comporre La Valse, Ravel pensava ad un balletto che fosse un’apoteosi del valzer, ambientata – dove altrimenti? – nella corte viennese all’epoca di Francesco Giuseppe e degli Strauss. Ma nel 1919, quando mise effettivamente sul pentagramma la sua nuova composizione, la bufera della guerra aveva annientato quel mondo e cancellato definitivamente il sogno della Vienna spensierata e felice, simboleggiata musicalmente dal valzer. Il progetto iniziale prese dunque un’altra direzione e Ravel stesso descrisse La Valse come un «turbinio fantastico e fatale», mettendo in rilievo non tanto l’esaltazione gioiosa del valzer quanto la tensione che sottende questa musica.
Il lato oscuro della Valse è rivelato fin dall’inizio da un fremito sordo che pulsa sotterraneo, creando un senso d’inquietudine. Eppure il tema del valzer, che gradualmente emerge da quello sfondo indistinto, appare leggero, perfino frivolo. Questo tema si afferma, si dissolve, appare di nuovo, sempre meno frizzante e più esacerbato, per raggiungere un culmine parossistico nel finale, quando lo scatenamento orgiastico del ritmo e gli inebrianti colori della virtuosistica tavolozza orchestrale catturano e travolgono l’ascoltatore, ma non possono occultare totalmente il lato inquietante e demoniaco della Valse.
testo di
Mauro Mariani