American Portraits

Sentieri selvaggi e la musica americana hanno incrociato il loro cammino fin dal primo concerto del gruppo, realizzato oltre ventiquattro anni fa. Eravamo allora in piena Guerra del Golfo, in tutta Europa si respirava un atteggiamento ostile verso qualsiasi cosa portasse il marchio statunitense; nell’aria serpeggiava un malcelato razzismo nei confronti degli USA e anche in campo culturale non si faceva eccezione. Inoltre nell’Italia di quegli anni, e soprattutto nell’ambiente impropriamente detto “colto”, la musica contemporanea americana non veniva considerata molto: con l’eccezione di figure istituzionali e approvate dalle avanguardie ufficiali europee come John Cage, Morton Feldman, Elliott Carter, Milton Babbitt, che venivano in qualche modo eseguiti, la maggior parte dei direttori artistici nostrani considerava gli americani come dei simpatici buontemponi fondamentalmente ignoranti, provenienti da un paese ancora troppo giovane per possedere la profondità che derivava dall’avere alle spalle millenni di Storia come l’Europa: veniva solo rispettato (seppur con una certa superciliosa supponenza) il mondo del jazz, considerato l’unica autentica forma espressiva inventata dagli americani.

Nessuno o quasi considerava la novità che nasceva dal fenomeno del minimalismo, che anzi era fortemente osteggiato e praticamente mai proposto in concerto (lo shock culturale provocato dall’esecuzione di Einstein on the Beach di Philip Glass e Bob Wilson alla Biennale di Venezia del 1976 era stato sminuito in fretta dalla critica) per non parlare dei compositori della generazione successiva, i cosiddetti postmoderni, considerati poco più di una barzelletta.
Noi eravamo decisamente contrari alla stupidità di questo atteggiamento, così decidemmo di intitolare il nostro primo Festival “Gli Amici Americani”, dato che non riuscivamo proprio a pensare che autori come Steve Reich, Laurie Anderson, David Lang e Michael Gordon potessero essere equiparati a figure come Ronald Reagan e George Bush solo perché nati negli Stati Uniti. Per i compositori della nostra generazione l’America era una ventata di aria fresca nell’ambiente spesso ammuffito e incancrenito delle avanguardie europee, da troppi anni incistate su posizioni reazionarie che riciclavano i fasti di Darmstadt e parlavano ancora un linguaggio vecchio di oltre trent’anni.

 

Gruppi come Bang on a Can avevano ribaltato completamente la prospettiva stilistica, unendo il rigore compositivo di autori come Luciano Berio e Louis Andriessen all’influenza del rock e del jazz, portando sangue fresco e nuova energia nel mondo della musica da concerto. Eravamo entusiasti anche degli autori della generazione precedente e le partiture di Reich, Adams, Glass, Riley e Rzewski hanno affollato i nostri programmi molto spesso. Con lo stesso interesse abbiamo conosciuto e frequentato i compositori più giovani che sono arrivati successivamente sulla scena americana, da Julia Wolfe ad Anna Clyne, da Michael Torke a Michael Daugherty. Con molti di loro abbiamo stretto amicizie che durano da decenni, e abbiamo commissionato diversi lavori scritti appositamente per il nostro ensemble. In tutti gli anni del nostro percorso il dialogo con i musicisti americani è stato fecondo e continuo e la proposta capillare di queste musiche ha fatto sì che progressivamente molte delle diffidenze che circondavano queste partiture e questi compositori siano scomparse. Con piacere vediamo ora diversi altri gruppi italiani proporre gli stessi autori che anni fa eravamo gli unici ad eseguire.
In questi tre concerti a Spoleto proponiamo un vasto panorama di compositori dalle tendenze stilistiche molto diverse tra loro. Alcuni provengono dal minimalismo, mentre altri (come Sean Shepherd e Andrew Norman) non hanno nulla a che fare con quella esperienza: l’America ha molte facce musicali, e ci piace esplorarne diverse. Pur avendo frequentato a lungo anche autori storici come Cage e Feldman, in questa occasione abbiamo scelto di eseguire autori meno conosciuti, riservando solo la prima serata ai nomi storici del minimalismo e concentrando la nostra attenzione su compositori di grande livello che tuttora sono incredibilmente trascurati nel nostro paese.

 

Compositori come Missy Mazzoli, Christopher Cerrone, Timo Andres e Armando Bayolo sono presenti con regolarità nei cartelloni delle più prestigiose istituzioni statunitensi, ma totalmente ignorati in Italia. Quello che stupisce e incuriosisce è la straordinaria varietà di stili e modi di espressione presenti nella musica d’oltreoceano. Immuni dalla mania delle “scuole compositive” che tuttora affligge l’Europa, questi musicisti possiedono una libertà espressiva spesso qui sconosciuta. Nella loro musica si ritrovano decine di linguaggi diversi, spesso mescolati in modo bizzarro tra loro, lontanissimi da qualsiasi sterile atteggiamento di purismo o accademia. Energia, colori strumentali inconsueti, utilizzo di forme derivate dalla musica popolare, teatralità ed estroversione spesso utilizzate in modo esplicito, capacità di comunicazione diretta con il pubblico (senza tuttavia cedere a posizioni ruffiane o accondiscendenti) sono solo alcune delle caratteristiche che si ritrovano in tutti questi musicisti.

 

Nel primo concerto riproporremo pagine storiche di Philip Glass, Terry Riley e Steve Reich eseguendole con gli strumenti originali di quegli anni: organi e tastiere elettriche oggi andati in disuso, fortunatamente ritrovati e restaurati grazie a Giovanni Mancuso, compositore e collezionista di strumenti musicali. Le sonorità così primitive e grezze di queste tastiere all’epoca erano davvero sconvolgenti e, con l’arrivo di successive versio- ni di questi strumenti, si sono notevolmente ammorbidite. Classici come Music in Fifths di Glass e Four Organs di Reich riacquistano così tutta la carica eversiva che aveva fatto gridare allo scandalo i primi ascoltatori delle partiture grazie a colori “elettrici” e ad atmosfere antitetiche rispetto a quelle tipiche della scrittura classica.

 

A Sentieri selvaggi piace anche esplorare lati diversi di questi autori: Meredith Monk, ad esempio, è universalmente famosa per la sua produzione di musica vocale, mentre noi proponiamo l’ascolto di pagine pianistiche affascinanti e di rara esecuzione. Terry Riley è noto per la sua musica dedicata al mondo delle tastiere elettroniche e noi, oltre a quelle, esploriamo una partitura per quartetto d’archi, organico acustico per eccellenza.

 

Nel corso di questi appuntamenti si passa dal gioco stilistico di Michael Daugherty, che rende omaggio a Nancy Sinatra e al suo successo discografico del 1966 These Boots are made for walkin’, a Michael Torke che organizza le armonie del suo pezzo ispirandosi all’elenco telefonico e mescolando insieme classicismo e musica pop, dalla complessità figurale di Sean Shepherd, autore di lavori di estrema difficoltà tecnica all’incantamento timbrico di Christopher Cerrone (che utilizza anche dei vasi di fiori come strumento a percussione) e alle reiterazioni maniacali del finale di Gestos Inutiles di Armando Bayolo, che progressivamente spingono al limite estremo il virtuosismo strumentale degli esecutori. La delicatezza della breve pagina per flauto solo di Christopher Rouse viene contrastata dalle minacciose sonorità industrial/rock di David Lang. Il fascino dei paesaggi americani on the road accompagna il lavoro di John Adams per violino e pianoforte, dove echi jazz si innestano su forme classiche e richiami al minimalismo. Molti altri ancora sono i colori di questo arcobaleno americano e non vogliamo certo togliervi la sorpresa di scoprirli durante l’ascolto.

 

Il filo comune che attraversa queste partiture così differenti tra loro è quello di un ottimismo dichiarato riguardo al mondo della composizione: non esiste sensazione di crisi, il linguaggio classico non è affatto considerato (come talvolta accade da noi) qualcosa di vecchio o destinato solo a una ristretta e raffinata élite di conoscenti. La musica classica convive naturalmente con il pop, il rock e le musiche provenienti da tutto il mondo, non è un linguaggio escluso dalla quotidianità, anzi ne assorbe le influenze e le ripropone in maniera autonoma proponendo un punto di vista sempre diverso e coinvolgente. Questa fiducia nel futuro continua ad essere la linfa vitale che spinge molti di questi compositori a scrivere opere liriche, sinfonie, concerti per strumento solista, usando le forme del passato come dei contenitori in cui riversare idee nuove. Il nostro viaggio all’interno dell’America continua e sono già diversi gli autori dell’ultimissima generazione a cui stiamo rivolgendo attenzione, in un continuo scambio culturale tra paesi differenti che oltrepassi le naturali differenze per cercare invece punti in comune, e che sia motivo di stimolo continuo e libero in un mondo spesso rinchiuso in se stesso come quello della musica contemporanea.

Carlo Boccadoro