Le Sacre du printemps / common ground[s]

Tutto nasce in una spiaggia del Senegal, fra la sabbia e l’azzurro del mare. Intorno a un grande rettangolo i danzatori, ragazzi in pantaloni scuri e ragazze con camiciole bianche. Parte la melodia sinuosa della Sagra della Primavera di Stravinskij e quando entrano i suoni ritmati degli archi, da quei particolari ports de bras espressionisti, un braccio in alto, uno lungo il corpo che disegna una curva appena accennata si riconosce subito il segno di Pina Bausch.

Abbiamo imparato a conoscerlo prima in video che in teatro questo Le Sacre du printemps con i danzatori africani. E subito è stato un entusiasmo generale. Quella ripresa delle prove generali in Senegal ha fatto il giro del mondo della danza. Dalle prove alla presentazione dello spettacolo in teatro c’è stato di mezzo il Covid e molti temevano che non ci sarebbe stato nulla di più di quella testimonianza in video.

 

Ma ora siamo pronti a vederli dal vivo, sulla scena del Teatro Nuovo Gian Carlo Menotti, in un luogo chiuso dove ancor più la danza diventa una coazione a muoversi dalla quale non si può sfuggire. Dunque era il 1975 quando il brano debuttò a Wuppertal, più di cinquanta anni fa. Il fatto è che lo sguardo così sincero e crudele sui rapporti umani sullo scontro fra uomo e donna non cessa di sconvolgersi. Del resto, sconvolgente, nel 1913, era la musica di Stravinskij e la coreografia originale di Nijinskij che da allora si porta con sè il profumo sulfureo della modernità.

 

Ma ora eccoci pronti ad assistere a questa grande impresa. L’iniziativa è di Mama Africa, la grande Germaine Acogny creatrice dell’Ecole des Sables a Dakar, Leone d’Oro alla carriera alla Biennale di Venezia, con la Pina Bausch Foundation e il teatro Sadler’s Wells.

Sino ad ora la Sagra della Bausch, oltre che dalla compagnia di Wuppertal, era in repertorio dell’Opéra di Parigi e del Balletto delle Fiandre. Solomon Bausch, il figlio di Pina, avvalora questa situazione: «Per lungo tempo i pezzi di Pina Bausch erano danzati soprattutto al Tanztheater Wuppertal e molti interpreti sono stati in compagnia per anni, anche decadi. Pochi al di fuori della compagnia hanno avuto l’opportunità di danzare questi brani. Il progetto è partito su proposta di Jorge Puerta Armenta, della compagnia di Pina». Nei video delle prove con i danzatori africani lo si vede insegnare i passi e movimenti al gruppo, e già questa è un’esperienza coinvolgente che consigliamo ai frequentatori di YouTube o Vimeo. Niente di selvaggio, come banalmente ci si potrebbe aspettare. Lo scontro fra uomo e donna rude, sacrificale diventa qui una energia costantemente tenuta sotto controllo. C’è quasi terrore fra le donne nel passarsi il drappo rosso che diventerà una camiciola per l’eletta, la destinata alla morte. E il suo assolo finale, il crollo a terra, coinvolge ed emoziona. La spinta verso il basso, il richiamo della terra, abolita la leggerezza, accomuna tanta danza contemporanea europea e africana. Gli interpreti sviluppano una forte intensità e dimostrano tutti una buona formazione.

 

Resta aperta una riflessione sul rapporto fra danza contemporanea europea e Africa. Importare la Sagra della Bausch in corpi africani ad uso, soprattutto immaginiamo, dello spettatore europeo, è un’operazione che sa di neocolonialismo o serve piuttosto a dimostrare quanto sia profondo il pensiero coreografico della Bausch, anche se calato in una realtà estranea?

Ma ai danzatori coinvolti e allo sviluppo della danza contemporanea africana è difficile dire, se vogliamo essere un po’ talebani, quanto serva questo progetto, se non a subire l’imposizione di modelli europei. Piuttosto soddisfa quella “sindrome del colonialista”, quel bisogno di “risarcire” che spesso rispunta anche nella cultura e nello spettacolo. Sin dai tempi di Joséphine Baker, il corpo nero, di ebano, sensuale o adrenalinico, ricolmo di energia ed esotismo è stato un oggetto di consumo estetico, se non erotico, per lo spettatore bianco. È un aspetto di cui dobbiamo tenere conto. E Bill T. Jones, per esempio, lo ha ribadito in molti suoi spettacoli impegnati come Last Supper at Uncle Tom’s Cabin. È vero che contemporaneamente abbiamo assistito a un fenomeno inverso, il percorso di appropriazione della cultura di danza bianca da parte dei neri, e questa Sagra può essere un esempio. Un nome per tutti Misty Copeland dell’American Ballet Theatre e la sua battaglia perché le fossero affidati ruoli da étoile. Ugualmente sa di rivendicazione lo sfarzo vistoso dell’abbigliamento di certe star afroamericane. Lo sottolinea Sidi Larbi Cherkaoui che ha coreografato il video Apeshit, con Beyoncé e Jay-Z ricoperti di abiti e gioie riluccicanti in uno scrigno di bellezza e ricchezza, al museo del Louvre, a Parigi: «L’Europa ha costruito la sua ricchezza grazie anche allo sfruttamento del continente africano e allo schiavismo. E ci porta a riflettere sull’emigrazione dall’Africa all’Europa di oggi. C’è tutta una parte della storia europea che non si impara bene a scuola. Ma di alcune azioni dei nostri avi non c’è da andare fieri e molte ricchezze le abbiamo conquistate altrove. Tutto ciò ha creato una sorta di credito che a un certo punto dovrà essere rimesso in discussione. A volte sono i figli che pagano gli errori dei genitori, ma è così. E dunque c’è una necessità da parte dell’Europa di svegliarsi e capire che non può soltanto prendere senza condividere».

 

E la Sagra senegalese non è senz’altro un risarcimento, così come non lo sono state molte operazioni da parte della nouvelle danse francese intenta a esportare i propri modelli in Africa o a invitare coreografi africani in Francia. Come aiutare la danza contemporanea africana a svilupparsi è un problema e non imporre il proprio sviluppo coreografico non è facile, è vero. Un esempio da seguire con attenzione invece è quello di Dada Masilo che introduce e include temi europei in una struttura africana. Nata in Sudafrica, una formazione a Bruxelles con Anne Teresa De Keersmaeker, racconta i blockbuster del repertorio europeo con uno sguardo e un approccio assolutamente africano: la ballerine nere che fanno passi Zulu in Swan Lake, l’approccio femminista nella Carmen, gli spiriti degli antenati in Giselle.

 

Germaine Acogny e Malou Airaudo, due papesse della danza contemporanea, entrambe interpreti del Sacre in occasioni e modi differenti. Airaudo con Pina a Wuppertal, Acogny (Leone d’Oro alla carriera alla Biennale di Venezia) con Olivier Dubois in Mon élue noire (La mia eletta nera). Due vite straordinarie, piene di esperienze. È dedicata tutta a loro due la seconda parte del programma common ground[s], un nuovo lavoro ideato, interpretato e ispirato alle vite di due donne straordinarie. Le due artiste esplorano le proprie storie condivise e le proprie esperienze emotive in uno spettacolo che le vede per la prima volta insieme sul palcoscenico.

Sergio Trombetta