Teatro

Un luogo da cui uscire

il lavoro sui classici di Leonardo Lidi

di Graziano Graziani

Quando si parla di attualità dei classici, degli autori dei classici, mi viene spesso in mente August Strindberg ma, paradossalmente, non per via dei suoi drammi. A rendermelo un emblema di come certe riflessioni, scavando nel profondo dell’animo umano e dei rapporti sociali, possano consegnare se stesse al futuro senza perdere smalto e lucidità, è un piccolo scritto che Goffredo Fofi ha recuperato nel 2012 per il centenario della morte dell’autore svedese e ha pubblicato, assieme ad altri testi d’occasione e ad un racconto, in un volume intitolato Se la classe inferiore sapesse… (edizioni dell’Asino). Il testo in questione si intitola Sopravvalutazione del lavoro culturale ed è un esercizio di lettura imprescindibile per chi voglia evitare di restare impantanato in quel frequente errore di valutazione, o sfocatura, che ci fa vedere il passato come l’età dell’oro. In quel breve testo, usando la seconda persona, Strindberg descrive il debutto di una pièce teatrale su cui l’autore depone grandi aspettative, convinto com’è di avervi inserito “una grande invenzione fantastica” che “renderà felici gli uomini e sarà loro di grande utilità”. Il sentimento solenne che sovrasta l’attività del drammaturgo, tuttavia, va a scontrarsi con la cruda realtà: lo spettacolo sarà rappresentato appena cinquanta volte, sarà dunque visto da circa 30.000 persone (perché molti rimediano i biglietti gratis) e a malapena mille compreranno il testo stampato. Su una popolazione di quattro milioni e mezzo di abitanti della Svezia dell’epoca, davvero una goccia nel mare.

August Strindberg

Quel testo di Strindberg fa sorridere, un po’ perché i crucci di ieri non sono dissimili a quelli di oggi (dai biglietti gratis alla marginalità del teatro) e un po’ perché, nonostante il tempo trascorso e le differenze storiche, l’autore descrive un sentimento vivo ancora oggi, ancor più oggi, sul senso di fare teatro. Già questo basterebbe a dare una risposta alla questione vecchia, persino un po’ banale (e comunque già risolta magistralmente da Calvino) sul perché tornare ai classici. Eppure i classici, soprattutto in teatro, anziché essere un prisma attraverso cui leggere il presente, a volte possono essere trasformati nella giustificazione di un passato che non passa mai.

Leonardo Lidi

Per questo ho trovato particolarmente stimolante l’idea di Leonardo Lidi, che debutta a Spoleto con La signorina Giulia di Strindberg, di approcciarsi ai classici come un gesto d’amore e di devozione, ovviamente, ma anche come un atto di protesta. E di consapevolezza.

“In Italia, molto spesso, i classici, i particolare alcuni testi molto iconici, vengono affidati in modo quasi automatico ai grandi registi, ai nomi più riconosciuti. È una scelta consolidata di chi preferisce non rischiare, tipica dei grandi teatri pubblici. Ovviamente non è sempre così, ma è una tendenza che racconta molto del nostro paese. Andando a vedere teatro all’estero ho notato che accade il contrario: proprio un grande testo, che ha solide base e di cui il pubblico ha profonda conoscenza, viene spesso utilizzato come luogo sicuro da far abitare alle nuove generazioni di registi, che posso approfittare della solidità dei classici per trovare una propria voce. È proprio in risposta a questo impasse italiano che io, invece, ho iniziato da subito ad affrontare i classici e a farlo con dedizione, studio, e combattendo quella sensazione – a volte persino ci autoinduciamo – di non sentirsi all’altezza perché si è più giovani. Penso che fare un’operazione di questo tipo abbia una precisa valenza politica”.

Classe 1988, Leonardo Lidi ha studiato a Torino con Valter Malosti, e dopo aver collaborato come attore con registi come Antonio Latella e Andrea De Rosa, ha diretto contemporanei e classici (tra cui Spettri e La casa di Bernarda Alba). Il suo rapporto con i testi della tradizione nasce proprio negli anni della formazione e continua ancora oggi ad essere orientato principalmente dallo studio del testo. Studio che consente di far risplendere, come in una radiografia, le tracce profonde di una drammaturgia, quelle che comunicano direttamente con il nostro presente. Nel caso de La signorina Giulia il controluce ha a che fare con la condizione della generazione dei trentenni.

“I protagonisti del dramma hanno 25, 30 e 35 anni. Sono dei giovani adulti che non riescono, tuttavia, a prendere in mano la propria vita. Anche Giulia, che spesso viene descritta come una ragazzina, un’adolescente che fa le bizze degli adolescenti, è in realtà una donna fatta e finita: siamo nel 1888 e avere venticinque anni significa essere pienamente adulti. Tuttavia il cammino verso una piena affermazione di sé sembra essersi inceppato, per loro. A gravare sui destini dei personaggi è una figura, a ben guardare, persino assente. Del Conte, infatti, viene detto fino dalle prime battute che non c’è, è stato accompagnato alla stazione. Sgombrato il campo dalla sua presenza, tuttavia, la sua ombra continua a proiettarsi su Giulia e sul servo Jean”.

La signorina Giulia, prove

Quello che accade ai personaggi di Strindberg è, secondo Lidi, press’a poco quello che accade alle persone della sua generazione. Sentirsi come rinchiusi in un eterno apprendistato, relegati in un tirocinio infinito, un’anticamera dell’esistenza. A volte a creare questo stato di cose non è neppure qualcuno o qualcosa, ma un semplice stato mentale. L’impossibilità di immaginarsi diversamente, l’impossibilità di immaginare il proprio futuro. Al pari del Conte – presente e assente allo stesso tempo – se c’è un “sistema”, uno stato delle cose che blocca le generazioni più giovani, esso risiede un po’ anche dentro di loro.

“Ho sempre cercato dei testi che potessero mettere in luce questo stato di cose – prosegue Lidi – che  è un tema centrale del mio lavoro. La signorina Giulia, Spettri, La casa di Bernarda Alda, sono tutti drammi legati da fili di senso, e per me fanno parte di un unico percorso. Tutti lavorano sull’autovincolarsi, su personaggi rinchiusi in un luogo da cui non riescono ad evadere. Può trattarsi di una zona comfort, di una certezza, di un pensiero, ma si traduce sempre con l’incapacità di riuscire a scappare, ad andarsene. Un meccanismo che ha a che vedere con l’incapacità di diventare padri, il fatto cioè di rimanere sempre figli. A volte perché il fuori ci spaventa, a volte perché è più comodo così”.

Per Leonardo Lidi, quindi, il gesto politico è impadronirsi dei classici in un’età in cui di norma non è consentito, combattendo quella distorsione di prospettiva secondo la quale ciò non sarebbe possibile o appropriato. Ambire, come dice lui stesso, a “testi inarrivabili”, per combattere la propensione che Jean, il domestico o il servo, come si diceva un tempo, spiega limpidamente verso la fine del testo: quando si è educati per servire, ci si dimentica che esistono anche altre possibilità. È una condizione che August Strindberg, il “figlio della serva”, conosce bene: quella condizione biografica, con cui farà i conti per tutta la vita, sarà il motore dei suoi discorsi più politici.

Se quel discorso politico giunge intatto fino a noi il motivo non sta solo nella capacità dell’autore svedese di cogliere aspetti dell’animo umano che, al netto delle dinamiche storiche, continua a raccontarci la sua verità. Questo, indubbiamente, è uno degli aspetti essenziali di un classico. L’altro risiede, potremmo dire, fuori da esso, ed ha a che fare con la capacità di chi lo maneggia di farlo risuonare con il nostro tempo. È per questo che mettere in scena un dramma dell’Ottocento può essere, a seconda del contesto e delle motivazioni, un atto di conservazione o un atto di protesta. Non si tratta dello stesso gesto, pur svolgendosi attorno alle stesse parole. D’altronde Mahler diceva che la tradizione non sta nel culto delle ceneri, ma nel tenere vivo il fuoco. Due gesti diversi che hanno a che fare con la stessa materia.